Ritorniamo a parlare di partnership tra l’Europa e gli USA e di quello che sta cambiando durante la presidenza Biden

La nuova partnership euro-americana

, di Antonio Longo

La nuova partnership euro-americana
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Nel giro di pochissimi giorni l’Occidente si è riunito, in diverse circostanze, per riprendere a ragionare del proprio futuro: a Londra, prima con i ministri economici del G7 (4 giugno) che hanno sottoscritto un accordo “storico” sulla tassazione minima delle multinazionali al 15%, poi con i leader del G7 (11 giugno); a Bruxelles, prima con il vertice Nato (14 giugno) e poi con il summit USA/UE (15 giugno); infine, una prima prova verso l’”esterno”, con un bilaterale Biden/Putin a Ginevra (16 giugno).

Non si era mai vista una simile sequenza di incontri. La necessità evidente di voltar pagina rispetto all’era Trump, ha imposto tempi e modi di un dialogo euro-americano attorno alla questione del “nuovo ordine mondiale”, cosa che è qualcosa di più del rapporto con Cina e Russia.

Occorre, infatti, partire dalle grandi questioni globali che sono sul tavolo: la lotta alle pandemie, la difesa del clima, le regole sull’intelligenza artificiale, sulla cyber-sicurezza, sulla tutela di un commercio internazionale non falsato dagli aiuti di Stato, sulla tassazione delle multinazionali, per non parlare poi della politica nel Mediterraneo e verso il continente africano.

Questi dossier possono essere affrontati solo dagli USA e dall’UE nel suo complesso, cioè con le sue Istituzioni comuni. Biden ha capito che non avrebbe senso, per Washington, discuterne con Parigi o con Berlino, ma occorre riconoscere l’esistenza dell’Unione come entità politica, della quale si ha bisogno per provare a ridare un ordine al Mondo. Gli Europei non possono che esser fieri di questa svolta. Hanno tenuto duro all’epoca di Trump sui valori democratici e le regole del multilateralismo e questa posizione si è rivelata vincente: l’America torna sulla strada che l’Europa ha mantenuto aperta in questi anni. È questo il vero senso di “America is back”.

Al vertice Nato è stato deciso di creare un “Consiglio Usa-Ue per il Commercio e la Tecnologia”, un organismo tecnico bilaterale la cui funzione non è tanto e solo quella di risolvere le questioni commerciali tra le due sponde dell’Atlantico, dai dazi doganali all’intesa Boeing-Airbus (per evitare il dumping cinese sulla produzione aeronautica), ma soprattutto un luogo dove americani ed europei possono concordare gli standard globali per le nuove tecnologie, per esempio l’intelligenza artificiale (prima che sia la Cina a farlo in forma unilaterale), ma anche la sicurezza delle catene industriali, logistiche e di trasporto, rivelatesi deboli con il lockdown e la pandemia, costringendo così Pechino a rispettare davvero le regole di mercato.

Biden ha inoltre accettato la definizione della Cina elaborata dalla UE, che ha sempre rivendicato la necessità di un approccio «multiforme», che include «elementi di cooperazione, concorrenza e rivalità sistemica». Infine, si è impegnato per un «dialogo ad alto livello Ue-Usa sulla Russia. Non si tratta di formalità dei documenti ufficiali, bensì del riconoscimento che l’Unione europea è un attore politico, oltre che economico.

Dunque, siamo nella fase del passaggio da un’Alleanza Atlantica in cui i Paesi europei erano tutti (alchè quelli più importanti) “junior partner” degli USA, ad un’altra in cui si manifestano le condizioni per realizzare una “equal partnership” (già evocata da Kennedy) tra USA ed Unione Europea.

Con il Recovery Plan l’Unione ha messo in moto un processo di “capacità fiscale”: debito comune sugli investimenti futuri per lo sviluppo sostenibile e la rivoluzione digitale. E nei giorni scorsi la Commissione europea l’ha tradotto in pratica, con il lancio di una prima tranche di “union bonds” decennali per finanziare Next Generation EU. A fronte di una offerta per 20 miliardi di euro sono giunte richieste (anche dall’Asia) per 142, sette volte superiori alla disponibilità. Un successo “storico”, come ha dichiarato Ursula Von der Leyen, perché fino a qualche anno fa l’idea di titoli europei garantiti dall’intera Unione era una semplice chimera. Si crea così un embrione di mercato di titoli UE alternativo ai Treasury-Bond americani. Anche questa è equal partnership.

In questo contesto l’Unione Europea deve fare scelte strategiche di lungo periodo, non solo verso la Russia, la Cina, ma nei confronti di tutto il mondo. Solo se ha una “visione” sull’ordine globale la UE può esser player globale e quindi dotarsi dei mezzi necessari a tal fine.

La visione europea (multilateralismo) ruota attorno alla costruzione di beni pubblici globali: ambiente, sanità, commercio, moneta, digitale, cyber-sicurezza, tecnologia, da coniugare con democrazia e diritti della persona. La vera forza della UE sta nella combinazione tra sviluppo economico “sostenibile” da una parte, e standard tecnico-politici internazionali, dall’altra. È nella costruzione di regole ed istituzioni sovrannazionali che la UE può giocare con forza perché è nel suo DNA fondativo, che si è affermato lungo 70 anni di storia comunitaria, fatta di regole e di diritti: prima per gli europei in quanto consumatori (mercato unico), poi in quanto cittadini (un Parlamento eletto) e infine in quanto persone (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). E questa sfida l’Unione continua a portarla avanti al proprio interno anche con il Recovery Plan, i cui finanziamenti (NextGeneration EU) vengono concessi agli Stati (e alle imprese) se accompagnati dal rispetto dello stato di diritto.

Ora la sfida va portata sul piano internazionale, assieme agli USA. Un discorso che non è solo ideale, ma anche economico e politico e che è imposto, di fatto, dalla necessità di “trasformare” l’economia e i processi produttivi per renderli resilienti alle sfide ambientali e sociali.

Senza questo legame non si vincono queste sfide. Il saccheggio del Pianeta non è più un’opzione di lungo termine, per nessun Paese. La consapevolezza di ciò è crescente, anche se non immediata. La valutazione sulla sostenibilità e responsabilità degli investimenti delle imprese è fatta sempre più sulla base della misurazione dei criteri “ESG” (Environmental, Social and Governance) , detto altrimenti approccio delle tre P (Persone, Pianeta, Profitti). Sta a significare che le aziende non devono concentrarsi solo sui “profitti” (se vogliono crescere nel tempo), ma su ciascuna delle tre P, altrettanto importanti per la loro sostenibilità. Le imprese che hanno retto la concorrenza internazionale sono quelle che hanno più innovato sotto questo profilo.

Utilizzare in tal senso gli investimenti Next Generation EU (in ricerca & sviluppo) è il modo migliore per rafforzare la competitività delle imprese europee (soprattutto le PMI) nelle sfide globali che la partnership euro-americana può ora presentare.

L’articolo è uscito in forma ridotta sul quotidiano «La Prealpina» il 20 giugno

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