La percezione del gender in Europa

, di Camilla Scaglione

La percezione del gender in Europa
Silar, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/license...> , via Wikimedia Commons

Malgrado tutte le sue sfaccettature, a parole, il gender è un concetto molto semplice. Eppure nemmeno ai giorni nostri, in cui le differenze della società sono più immediatamente comprensibili, vi sono cittadini diffidenti, ignoranti e talvolta pure discriminatori. In questo mese si celebra il Pride, fenomeno nato negli Stati Uniti e che ha tardato a consolidarsi in Europa, come ancora l’Europa tarda a percepire la totale normalità del gender.

Gender: genere, o qualcosa di più complesso? Sicuramente durante il XX e XXI secolo il termine ha cominciato a calcare le scene di diversi Paesi europei. Le conseguenze non sempre sono state positive, né immediate.

Il gender poi mero termine non è. Ha un’ontologia empirica, quasi tattile, al di là dello psichico, corporale. Perché il gender si percepisce sia interiormente sia esteriormente. Ad esempio, con un utilizzo smodato di make-up e capi, che mai si configura come davvero eccessivo, perché sempre strettamente legato alla personalità del soggetto. Esso collima con l’intimo ego dell’individuo umano. È ciò che l’egoità percepisce capillarmente come parte integrante del sé. È la definizione più basilare dell’interiorità psichica che si manifesta verbalmente e visivamente tra compari. Ha a che fare con la percezione che l’individuo ha di sé da un punto di vista materico e, al contempo, intangibile.

Di gender si parla riguardo la preferenza proverbiale. Non a caso, di recente, applicazioni e network hanno inserito tale dicitura nella parte descrittiva dei profili online dei propri utenti. Rivolgersi a una persona, negli anni Venti del nuovo secolo, con il pronome a questi consono è una delle forme di rispetto e riconoscimento interpersonale e paritario più forti che esistano, anche se di relativa neonatalità. Parlare all’alterità non è più da considerarsi banale.

La discorsività, la narrativa sono parte integrante dei gender studies. Si tratta di un complesso metodologico di prassi e analisi antropologiche e filosofiche che vanno a prendere in esame identità e personalità nel complesso socioculturale in cui l’individuo è immerso. Genere, a questo punto, è un termine, ontologicamente diverso da sesso, che indica le modalità in cui le differenze tra i sessi acquistano significato e diventano fattori strutturali nell’organizzazione della vita sociale [1], dice Treccani. Quindi si parla non di sessualità biologica, ma di qualcosa di culturale seppur materico. La materialità si esibisce nell’introduzione di un linguaggio più neutro, per mezzo ad esempio dell’utilizzo della schwa, ossia ə, nel parlato e nello scritto italiani, nei casi in cui ci si riferisce a gruppi misti di persone, dove fino a poco tempo fa, la lingua del Bel Paese voleva il maschile sovraesposto, tratto grammaticale spesso ritenuto patriarcale e discriminatorio.

Risulta di fatti discriminante, oggigiorno, riferirsi a un gruppo di persone tramite una dicitura etero-cisgender, ossia eterosessuale e che si riferisce a una persona la cui identità di genere coincide con il genere assegnato alla nascita. Il motivo della suddetta discriminazione sta nel fatto che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino ad arrivare a oggi, la scena della sfera di genere si è di molto ampliata rispetto a un linguaggio puramente binario, ossia comprendente solo il genere maschile e femminile, cis ed eterosessuale. Spesso la voce di quell’alterità debole che è il movimento LGBTQIA+ si contrappone al capitalismo machista, che vuole il lavoratore appiattito al livello del conformismo e produttore, citando Michel Foucault, di flussi di redditi. Se ne potrebbe derivare una visione per cui il sottolineato genere non vale più e si assiste a un livellamento generale in cui ciò che conta è il valore pecuniario di ciascuna persona e non importa più a nessuno degli altri elementi identitari del soggetto, non solo del genere, ma fin tanto, per esempio, dell’età. Eppure, così non è, perché l’ipercapitalismo della globalizzazione ha fatto tanto, ma tra questo tanto c’è ben poco di egualitario.

L’espansione del mercato, il neoliberalismo economico, la nascita di una rete globale, ma anche solo europea, parlando in prima battuta della CEE arrivando all’UE, non ha prodotto un’integrazione del dimorfismo di genere. Le discriminazioni che, come detto, partono dal linguaggio stesso, parlato e scritto sono state e sono dilaganti. Inoltre, l’Europa si è mossa con una sorta di ritardo nella promozione della libertà di genere, sorella della libertà di espressione. Nonostante le prime donne transgender con revisione totale del sesso, ossia con rimozione del pene e conseguente vaginoplastica, siano europeissime, la tedesca Dora Richter e la danese Lili Elbe, dalla cui vita è stato tratto il lungometraggio intitolato The Danish Girl, la mobilitazione delle masse europee verso una maggior libertà di genere è arrivata in ritardo.

Il movimento di liberazione del gruppo LGBTQIA+ nasce nel 1969 a New York con i moti di Stonewall e l’emergere della ballroom culture, ossia luoghi di ritrovo e di comunione per individui che non si identificavano nel dogma etero e bianco ma trovavano rifugio in riunioni ed esibizioni sfarzose e stravaganti. Una narrativa che suona molto più statunitense che europea e difatti così è stato per molto tempo. Parigi è divenuta nota per la scena delle ballroom soltanto di recente e in Italia il Governo stesso si oppone all’estensione dei diritti alle coppie non binarie. Per non parlare della situazione orientale del Vecchio Continente, come Russia e Polonia, dove essere gay è ancora ad oggi un fattore causa di reclusione e discriminazione.

In Europa la situazione di omosessuali, transessuali, lesbiche, pansessuali, asessuali e queer, o meglio di tutti coloro che identificano la propria persona in modo differente dalla cultura egemone, almeno per quanto riguarda la sessualità e il genere, è dipinta a tinte fosche. A lungo sottoposta alla prigione, se non addirittura alla pena capitale, l’omosessualità di qual si voglia sesso è stata motivo di vergogna per centinaia di migliaia di individui nel continente e il fenomeno del Pride, ossia dell’orgoglio LGBTQIA+, è un fenomeno che ha calcato le scene in modo massivo diventando a pieno titolo fattore culturale di spessore solo nel primo ventennio degli anni 2000. Ciononostante, a livello di libertà di espressione, non è paragonabile la vita sociale che è possibile avere per i queer in Europa con quella dei losangelini o dei newyorkesi. Non che non si abbia una voce anche qui, ma restano molto più presenti stigmi culturali legati al panorama della promiscuità e prostituzione. Solo di recente in Italia abbiamo avuto sulla rete nazionale personaggi dichiaratamente omosessuali, e tali per loro coming out e non per outing altrui, ossia per loro stessa dichiarazione e non per confessione di terzi.

Il panorama europeo resta un passo indietro rispetto al Nord America, anche se è di certo più avanzato se confrontato con la scena asiatica, dove si va dalla mercificazione del corpo delle donne transessuali nella popolosa Bangkok thailandese, alla mera mancanza di riconoscimento nella dittatoriale Pyongyang nordcoreana.

L’Europa, vecchio scrigno del mondo, resta sospesa a metà strada tra il liberismo totale e la vergogna. D’altronde è sempre e solo da meno di un decennio che in Italia, per citare uno qualsiasi degli Stati dell’Unione europea, sono possibili le unioni civili. Inoltre, l’adozione per coppie non binarie e non eterosessuali è un tema ancora di fervente discussione, in parte anche per l’alto grado di influenza che tuttora genera la presenza dello Stato pontificio nella Penisola. Non a caso gli Stati più avanzati sotto questo punto di vista sono quelli fermamente laici, dove davvero la religione di qualsivoglia fattura è bandita dall’agone politico e dai centri della burocrazia.

L’approccio alla diversità di genere non per forza risulta più aperto a seconda dello sviluppo del Paese. Si trova comprensione e diritto anche tra le popolazioni più rudimentali, come certe tribù nordamericane in cui l’omosessualità era considerata un genere a parte, un terzo genere, e le persone in questione venivano viste come simboli di fortuna e buon auspicio e spesso ricoprivano cariche di spicco, come quella di tesoriere.

Tutto molto lontano da una situazione in cui, per esempio, l’Istat nel 2011 raccoglieva dati che affermavano che il 41,4% della popolazione italiana riteneva inaccettabile l’omosessualità di un insegnante elementare e dove ben il 55,9% si esprimeva in un becero “se gli omosessuali fossero più discreti, sarebbero meglio accettati” [2].

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