La pericolosa invasione di campo nel dibattito pubblico: analisi critica del confronto di PiazzaPulita sulla guerra in Ucraina

, di Arturo Mariano Iannace

La pericolosa invasione di campo nel dibattito pubblico: analisi critica del confronto di PiazzaPulita sulla guerra in Ucraina
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PiazzaPulita, La7, 2 febbraio 2024. In prima serata si confrontano Paolo Mieli e Tomaso Montanari, quest’ultimo ben noto storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena. I temi sul tavolo sono molti: il notorio caso Ilaria Salis, la protesta degli agricoltori, la guerra in Ucraina. Soffermiamoci su quest’ultima.

“Mi chiedo se questa sia la strada” attacca Montanari, riferendosi all’invio di armi all’Ucraina, aggiungendo subito dopo che all’inizio della guerra “in Ucraina c’erano 51 milioni di abitanti, ora ve ne sono 28”. Il risultato, per Montanari, è chiaro: “se continua così, un’unica cosa è certa: l’Ucraina sarà rasa al suolo, sarà distrutta, sarà un cratere. La strada che è stata scelta è quella di alimentare la guerra, invece che la pace.” Interessante la successiva analisi sul diritto all’auto-difesa degli ucraini, e sul metodo per perseguirlo: “usare le armi per legittima difesa in una certa fase iniziale era comprensibile, ma puntare tutto sulle armi, e avere abbandonato ormai completamente […] un impegno vero diplomatico” da parte dell’Unione europea, arguisce Montanari, forte indubbiamente di una certa conoscenza degli eventi “porterà al disastro”. La domanda che pone è di quelle che non lasciano via di scampo: le armi, chiede, serviranno “a difendere l’Ucraina, o avranno l’effetto finale di raderla completamente al suolo?”

Di fronte all’ostinazione dell’altro ospite e interlocutore, Paolo Mieli, il quale evidentemente si ostina a riproporre l’idea (obsoleta, per Montanari?) che senza armi per supportare la propria difesa, l’Ucraina sarebbe comunque rasa al suolo (vedasi Grozny, Aleppo, Mariupol) o costretta alla resa, ecco Montanari proporre la sua ‘terza via’: “Le guerre possono finire in due modi: o con la sconfitta di una parte, o con un patto, con un accordo di pace”. Incalza Mieli: “Quale guerra è finita senza un vincitore e un vinto?” Montanari prova a metter su una contro-domanda: “Vogliamo continuare così? La risposta è che vogliamo vincere contro la Russia?” chiede retoricamente in prima persona plurale (evidentemente, tanto ha preso a cuore la causa ucraina da immedesimarsi con essa), rispondendosi poi da solo con un’altra domanda retorica: “è una verosimile visione che una potenza atomica come la Russia sia sconfitta senza conseguenze atroci?” La soluzione, quindi, appare chiara: “sedersi a un tavolo e trovare un accordo che […] comporterà naturalmente dei cedimenti da entrambe le parti”.

Nel prosieguo della discussione Montanari esplicita il suo riferimento ideale: l’azione portata avanti dal Vaticano (immancabile il riferimento al cardinale Zuppi, già incaricato dal pontefice per un’iniziativa di pace tra Russia e Ucraina). “Non c’è dubbio che l’Ucraina è aggredita e che la Russia l’abbia aggredita” dice Montanari “ma il punto è: come se ne esce? Armando l’Ucraina e basta?”

Il lettore perdonerà la decisione di riportare così tanti stralci diretti dal dibattito (integralmente visibile sul sito di La7). Eppure, si è reso necessario perché le affermazioni di Montanari sono significative. Lo sono per la loro mancanza di adesione alla realtà, per l’evidente ignoranza in materia di chi le ha pronunciate, e per ciò che, in quanto caso particolare, denotano riguardo un fenomeno più generale (di cui si dirà più avanti).

Sul primo punto, e cioè la mancanza di basi sulla realtà fattuale delle dichiarazioni di Montanari, e anche del conduttore Corrado Formigli, in particolare per quanto concerne la natura dei cinquanta miliardi di euro approvati dall’Unione europea in supporto dell’Ucraina, si rimanda a quanto già scritto da Adriano Sofri su Il Foglio del 3 febbraio.

Qui ci si vorrebbe soffermare piuttosto su altri punti, alcuni già rilevati da Sofri, e altri invece ancora da far emergere:

  • Usare le armi per legittima difesa in una certa fase iniziale era comprensibile, ma puntare tutto sulle armi, e avere abbandonato ormai completamente […] un’impegno vero diplomatico.”

La diplomazia occidentale si era mossa già prima dell’inizio stesso della nuova fase di guerra. Dal 2014, per ovvie ragioni di sicurezza, l’Ucraina si è mossa sempre più vicino all’Occidente, e cioè agli Stati Uniti e alla NATO. La risposta occidentale si è concretizzata in diversi modi: attraverso la European Reassurance Initiative (dal 2015, ridenominata European Deterrence Initiative nel 2018), il cui scopo era il rafforzamento delle capacità di auto-difesa dell’Ucraina, e quindi di deterrenza verso future aggressioni; nello stesso ambito rientrano il Comprehensive Assistanve Package dal 2016, e l’introduzione dell’Ucraina in un programma di partnership con la NATO (di cui fanno parte anche altri Stati, quali Svezia e Georgia) nel 2020; le operazioni di trasparenza messe in campo dalla NATO tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, quando il build-up russo per operazioni contro l’Ucraina stava facendosi sempre più evidente; le tre conseguenti telefonate del presidente Biden a Vladimir Putin (l’ultima il 12 febbraio 2022) mirate a dissuadere il Presidente russo dal prendere iniziative militari; la visita a Mosca del direttore della CIA William J. Burns.

Tutte queste azioni diplomatiche rientrano nel più vasto campo della deterrenza. Una deterrenza fallita, purtroppo, ma pur sempre tentata (si veda a riguardo l’eccellente analisi proposta da Antulio Echevvaria).

La diplomazia occidentale ha continuato a muoversi dopo l’inizio delle ostilità. Questa affermazione necessita di una precisazione. È evidente che, in qualsivoglia crisi o conflitto, sia più che naturale che le iniziative più forti riguardanti la loro risoluzione partano innanzitutto dai contendenti in campo. Per cui, sorprende poco che l’Ucraina sia stata in prima linea per proporre soluzioni ad una situazione in cui si è trovata suo malgrado: Volodymyr Zelensky ha dichiarato esplicitamente e pubblicamente l’apertura dell’Ucraina per la pace in un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre 2022, delineando anche una serie di proposte concrete per il suo raggiungimento. Zelensky ha continuato su questa strada il 15 novembre dello stesso anno, al summit G20 a Bali, in una pubblicazione ufficiale dell’8 agosto 2023, e negli incontri di Copenhagen (24 giugno 2023) e Jeddah (5-6 agosto 2023). Tutte le proposte ucraine sono sostenute dagli Stati Uniti e dall’Unione europea.

  • “Le guerre possono finire in due modi: o con la sconfitta di una parte, o con un patto, con un accordo di pace.”

La mancata risposta di Montanari alla richiesta di Mieli, di presentargli esempi storici a favore della sua tesi (nella fattispecie: esempi storici di guerre dove non vi siano stati vincitori e vinti), dovrebbe già allertare chiunque che qui il problema è serio. Ignoriamo la totale imprecisione del termine ‘sconfitta’ come usato da Montanari e dello stesso termine ‘guerra’ (si sta parlando esclusivamente di guerre tra Stati? E se sì, a quale livello? Fino alla guerra totale? Oppure no?). Per mostrare la varietà di possibili esiti di un conflitto ci si può limitare a citare la primissima pagina del lavoro di Dan Reiter, How Wars End (2009): qui troviamo elencati la Guerra di Corea (1950-3), terminata con l’armistizio del 27 luglio 1953, che ha diviso la penisola in due lungo la famigerata linea del 38° parallelo nord, ed al quale non è, a tutt’oggi, seguito alcun trattato di pace; la Guerra Civile Americana, il cui termine esatto è difficile da stabilire (la resa di Appomatox? La battaglia di Palmiro Beach? La cattura di Jefferson Davis?), e che è davvero difficile porre all’interno della piccola tassonomia montanariana (la Confederazione è stata annientata? Riassorbita?); la Seconda Guerra Mondiale, finita con una serie di capitolazioni incondizionate, seguite da trattati con le singole Potenze sconfitte, ma con la significativa eccezione della Germania. In altre parole, le guerre terminano in molti modi, e gli accordi di pace sono spesso e volentieri proprio il risultato della sconfitta di uno dei contendenti.

L’affermazione di Montanari si qualifica in un modo piuttosto semplice: grossolanamente sbagliata. Non solo non risponde alla realtà storica, ma ignora completamente la complessità di un fenomeno, quale quello bellico, che rimane pur sempre al centro dell’attenzione di interi campi di ricerca (War Studies, Peace Studies, Studi Strategici, etc…). Il rettore dell’Università per Stranieri di Siena non distingue tra termine delle ostilità e risoluzione del conflitto, una distinzione fondamentale ai fini della sua stessa argomentazione. Affermare che una guerra finisce o con la sconfitta di uno dei contendenti o con un accordo tra le parti, considerare la seconda posizione come eticamente superiore, e quindi maggiormente degna di essere perseguita rispetto alla prima (come implicito nel discorso stesso di Montanari) significa non comprendere (oppure, il che forse è peggio, rifiutare di comprendere) come le due opzioni siano in realtà strettamente legate l’una all’altra. Non a caso la già menzionata Guerra di Corea, non avendo né vincitori né vinti (ma non andrebbe forse considerata comunque una sconfitta il fallimento della Corea del Nord nel raggiungere il proprio obietto strategico di un’unificazione della penisola manu militari?), e neppure essendo terminata con un accordo di pace, costituisce anche un frozen conflict che continua, dopo settant’anni, a gettare la sua ombra sulla politica globale.

Un conflitto si risolve quando si riesce a soddisfare almeno una parte delle seguenti condizioni: la chiara vittoria militare di una delle parti; uno stallo mutualmente nocivo; il raggiungimento di una consapevolezza, da parte di entrambe le parti, che ci sia la possibilità di uscire dallo stato di conflitto mediante un dialogo fruttuoso; un cambiamento nella qualità del supporto internazionale alle parti in conflitto; una leadership sufficientemente forte, in entrambi i contendenti, per portare avanti il processo di pace all’interno, oltre che all’esterno; l’arrivo sulla scena di terze parti in funzione di facilitatori; il raggiungimento di un accordo condivisibile e condiviso dalla maggioranza delle popolazioni degli Stati coinvolti; la creazione di strumenti per facilitare il processo di ricostruzione post-bellica (la lista si può ritrovare, in inglese, in una interessante analisi commissionata dal Direttorato Generale per le Politiche Esterne dell’Unione europea proprio sul tema della risoluzione del conflitto ucraino, che mette insieme i risultati di decenni di letteratura scientifica sul tema).

Su tutti questi requisiti, alcuni dei quali di necessità si combinano tra loro, getta la propria ombra ciò che Reiter definisce come il problema fondamentale della risoluzione di conflitti: la paura del mancato rispetto degli accordi. Tale paura diventa forse superflua quando uno dei due contendenti è stato privato di qualsiasi possibilità di resistenza (vedasi il caso della Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel qual caso pure la paura di un ritorno del militarismo tedesco condizionò la politica internazionale per ulteriori decenni), ma resta il vero ‘elefante nella stanza’ in tutti gli altri casi. La Federazione Russa ha ormai una tradizione consolidata di mancato rispetto degli accordi, e spesso proprio nei confronti dell’Ucraina: lo dimostra il mancato rispetto del Memorandum di Budapest del 1992, con cui la neonata Russia, gli Stati Uniti, e la Gran Bretagna fornivano assicurazioni sul rispetto dell’indipendenza e dei confini di Ucraina, Kazakistan e Bielorussia in cambio della consegna da parte di questi ultimi Stati dell’arsenale nucleare sovietico presente sul loro territorio; lo dimostrano gli eventi del 2014, con l’annessione della Crimea e l’inizio del conflitto nel Donbass. Sarebbe imprudente da parte degli ucraini non temere che i russi possano violare qualsivoglia accordo venga raggiunto in merito alla risoluzione dell’attuale conflitto, laddove manchino adeguate garanzie in tal senso, la migliore delle quali resta sempre, pace Montanari, proprio il mancato raggiungimento, da parte dei russi, dei propri obiettivi strategici, cioè la sconfitta della Russia.

Siamo ormai entrati nella seconda delle problematiche da noi menzionate riguardanti le dichiarazioni di Montanari: e cioè quella relativa la sua ignoranza sull’oggetto del dibattito.

Un’altra prova ce la fornisce la menzione della Russia quale potenza atomica. Sorvolando il fatto che Montanari sembra qui riecheggiare tristemente i moniti, decisamente interessati, di parte dello stesso establishment russo, ciò che interessa qui è ribadire un fatto: Montanari non sa evidentemente molto di teoria della strategia nucleare, oppure cela le proprie conoscenze con invidiabile maestria. Non sa, o finge di non sapere, quale sia il significato da attribuire al termine ‘sconfitta’, implicitamente usandolo all’interno dell’immagine di una guerra totale (di nuovo, simile al secondo conflitto mondiale), e quindi come sinonimo di ‘sconfitta totale’, piuttosto che nel suo senso proprio, e cioè di fallimento del raggiungimento degli obiettivi strategici russi. Così come non sa, o finge di non sapere, che non tutte le guerre che coinvolgono una potenza atomica (anzi, fortunatamente, al momento nessuna), anche in caso di sconfitta di quest’ultima, si risolve nell’uso del nucleare. In caso contrario, il Vietnam adesso sarebbe una distesa radioattiva, così come Kabul, e già dai tempi dell’invasione sovietica degli anni ’80 (per non parlare del Kashmir, o ancora della stessa Corea, visto che la guerra in quella penisola si svolse in un periodo in cui gli Stati Uniti godevano dell’incontrastato monopolio dell’arma atomica). Non a caso la strategia nucleare è stata, tra alti e bassi, oggetto d’interesse accademico fin dalla fine degli anni ’40. La complessità dell’argomento è tale per cui generazioni di studiosi vi si sono interamente specializzati. Evidentemente, tuttavia, Montanari può dispensare da tale specializzazione.

Questa considerazione ci conduce all’ultima problematica da discutere. È colpa di Montanari se ha detto quello che ha detto? La risposta è negativa e positiva allo stesso tempo. Negativa, perché non si può pretende da uno storico dell’arte che sappia destreggiarsi in ambiti di studio complessi come quelli strategici e politici (o anche solo di storia della strategia e della politica internazionale). In questo caso, la vera colpa è di Corrado Formigli, in qualità di conduttore, che ha pensato bene di invitare uno storico dell’arte a discutere di questioni che non gli possono competere. Ma la risposta diventa positiva, se si considera che Montanari avrebbe potuto declinare l’invito. Avrebbe potuto far presente la sua non-competenza sul tema, e lasciare la palla ad altri. Ma non lo ha fatto, ed il risultato è stato alquanto disdicevole.

Le due decisioni, quella della conduzione di PiazzaPulita, di invitare Montanari a parlare su un tema di cui non è competente, e quella di Montanari, di accettare tale invito e discettare con convincimento su cose di cui chiaramente non comprende molto, sono la spia di un fenomeno tragicamente più vasto: quello dell’invasione di campo che si traduce in misinformation, la diffusione di informazioni fuorvianti o errate. Diciamo misinformation e non disinformazione perché ci piace pensare, o almeno vogliamo sperare, che non ci fosse alcun intento malevolo da parte di Montanari o di chicchessia. Resta però la gravità di tale cattiva abitudine: la quale si traduce nell’invitare storici dell’arte a parlare di delicate e complesse questioni politico-militari in qualità di esperti. Il che equivarrebbe a chiedere a chi scrive di discutere dell’opera di Gian Lorenzo Bernini in qualità di competente ed esperto: in altre parole, in una buffonata, che farebbe sicuramente insorgere, e giustamente, lo stesso Montanari. Eppure, lo storico dell’arte ha parlato, e ha discettato con presunta (ma solo tale) competenza. Ed il risultato è stato un ennesimo capitolo nella storia, ormai sempre più lunga, di un dibattito pubblico, italiano come europeo, inquinato da presunti ‘esperti’, che finiscono per fuorviare l’opinione pubblica su temi d’importanza critica come, nel nostro caso, la sicurezza dell’Unione stessa ed il futuro dell’Ucraina.

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