La pianta del federalismo non può crescere sul suolo del terrore e dell’incertezza

, di Arturo Mariano Iannace

La pianta del federalismo non può crescere sul suolo del terrore e dell'incertezza

È necessario anzitutto partire da una premessa. Chiunque sia addentro anche solo di poco al mondo del federalismo conosce dove, quando, perché venne scritto il Manifesto di Ventotene, e da chi. Pure, giova ripeterlo, e riassumerlo in poche parole: su di una piccola isola dove i suoi autori erano stati mandati al confino dalla dittatura fascista in quanto oppositori politici, nel bel mezzo di una guerra di scala prima di allora inimmaginabile e che, in quel momento, vedeva sulla soglia della vittoria proprio le forze del nazi-fascismo che in quel momento occupavano o governavano tutta l’Europa continentale. Un momento cupo, di buio squarciato tuttavia dal vigoroso appello di quei pochi che comunque continuavano a vedere una speranza oltre le tenebre del momento presente. A tutti gli effetti il Manifesto di Ventotene, se ne condivida il messaggio o meno, costituisce un appello alla speranza per tutti gli oppositori del nazi-fascismo, per tutti coloro che avrebbero comunque voluto un mondo migliore, rinato dalle ceneri del conflitto.

Ribadito ciò, sorge spontanea la domanda: perché questa premessa? Perché, andando dritto al punto senza nascondersi dietro inutili giri di parole, la speranza è una qualità di cui in questi giorni si sente disperatamente il bisogno e si percepisce altrettanto disperatamente l’assenza; e se il federalismo è frutto di un appello alla speranza, allora senza speranza lo stesso federalismo diventa un’idea vuota e priva di valore.

Procediamo con ordine: la gravità del momento presente è davanti gli occhi di tutti noi. Per nostra fortuna non siamo testimoni, come lo furono gli autori del Manifesto di Ventotene, di una guerra mondiale; eppure, viviamo ugualmente in un momento di profonda crisi e brancoliamo in tenebre sì diverse, ma pur sempre tali. L’emergenza sanitaria scatenata dalla diffusione su scala globale del Covid-19 ha, senza mezzi termini, annientato ogni barlume di speranza che il ciclo apparentemente infinito di crisi economiche e climatiche, politiche e sociali, poteva aver lasciato nel cuore e nella mente di molti. Soprattutto in Italia, verrebbe da aggiungere.

Chiunque abbia seguito le notizie degli ultimi giorni ha potuto assistere alle violenze di piazza di Napoli ed alle proteste più pacifiche che hanno avuto luogo sia nella città campana che a Milano, da parte di persone esasperate e, soprattutto, spaventate, non tanto dalla pandemia, ma dalla crisi economica, dall’assenza di prospettive, dalla latitanza (percepita o reale) di un piano efficace da parte delle istituzioni, siano esse regionali, nazionali, od europee. Ecco, europee: neppure l’Unione si salva da questo generale sentimento di sfiducia.

Basti vedere i dati rilasciati proprio dalle istituzioni europee. Nella ricerca condotta dal Parlamento Europeo e pubblicata questo ottobre, dal titolo Uncertainty/EU/Hope. Public Opinion in Times of Covid-19 , il dato che emerge non è dei migliori, laddove gli italiani risultano i meno soddisfatti dalle misure adottate dall’Unione per contrastare la pandemia (32%), della solidarietà tra Stati membri (21%, solo due punti sopra il fanalino di cosa rappresentato dal Lussemburgo); muovendosi sui sentimenti espressi, nel medesimo sondaggio, riguardo la pandemia e le sue conseguenze, i cittadini italiana si confermano tra i più scettici verso il futuro, visto con un forte sentimento d’incertezza (54%, in quarta posizione dopo Grecia, Spagna e Irlanda). Non tutti i dati risultano negativi nel sondaggio, ma il messaggio è comunque abbastanza chiaro; di più, c’è da attendersi che la recrudescenza della pandemia, con le relative ulteriori restrizioni, e le inevitabili ricadute negative (per dirla eufemisticamente) sulla tenuta dell’economia, non possa far altro che accentuare questi sentimenti dei cittadini italiani.

A questo punto, è legittimo chiedersi dove si situino, in questo quadro francamente desolante, il messaggio e la lotta federalisti. Si tratta di una domanda tutt’altro che retorica, e tutt’altro che insignificante. Al contrario: forse non si sarebbe troppo lontani dalla verità affermando che questa sia la domanda fondamentale cui il federalismo europeo, e tutti coloro che ad esso guardano, devono rispondere.

Chiaramente, la proposta federalista come risposta alla crisi scatenata dalla pandemia è chiara e puntuale: l’Unione federale, come unico strumento in grado di gestire in maniera davvero efficace l’emergenza sanitaria di oggi come quella di domani. Ma far attecchire questo messaggio nella cittadinanza (da cui pure dipende il vero destino della lotta federalista) costituisce un problema ben più complesso, un nodo estremamente difficile da sciogliere.

Qui entra in gioco la premessa di cui prima: il messaggio federalista, e la lotta da esso alimentata, non possono attecchire in un panorama dove la cifra dominante è non la speranza, ma l’incertezza; o peggio, la disperazione. Dinanzi ad una crisi che pure ha travolto l’intero continente, il rischio è, ancora una volta, quello di ritrovarsi con un’opinione pubblica nazionale orientata quasi esclusivamente a contemplare i pur gravissimi problemi interni dello Stato italiano, dimenticando o addirittura rimuovendo del tutto la prospettiva europea. In un contesto simile, limitarsi a riaffermare a parole l’importanza dell’Unione, o elencare semplicemente le misure adottate a sostegno degli Stati membri e dei loro cittadini, come pure giustamente si è fatto finora, non basta più e non basterà. Il rischio è che, semplicemente, il cittadino non ascolti più, travolto dalle sue proprie paure. L’unica soluzione è quella di rimodulare l’azione federalista all’interno degli Stati membri, Italia in primis: è il dovere fondamentale dei federalisti quello di alimentare tra i cittadini la speranza, quella stessa speranza che infiammava gli spiriti di coloro che scrissero il Manifesto di Ventotene e di coloro che li seguirono nella loro lotta. Soprattutto, questa opera deve avere come bersaglio privilegiato i giovani: quella categoria di cittadini che risulta più colpita dalle conseguenze della pandemia e dalle misure restrittive messe in campo dai vari governi, troppo spesso trascurata quando non attivamente stigmatizzata all’interno di una narrativa costruita e portata avanti da media ed istituzioni apparentemente più interessati a diffondere la paura piuttosto che ad informare e a comunicare in maniera chiara e precisa. Il movimento federalista, se non vuole finire travolto anch’esso dalla pandemia, deve tornare a parlare ai giovani (cosa che non ha mai cessato di fare) ma con termini nuovi, distaccandosi in maniera radicale da tutte quelle formazioni politiche che non hanno saputo, né voluto, offrire risposte a questi veri e propri cittadini di serie B, abbandonando le loro narrazioni ed adottando al loro posto una propria, unica prospettiva: ed essa non può che essere una visione dell’Europa sì federale, ma soprattutto portatrice di una rinnovata speranza; una visione idealista, se così si vuole, e nel senso più letterale del termine, ma che proprio per questo può offrire un’alternativa ad uno sguardo sul futuro fatto solo d’incertezza e timore. In altre parole, il movimento federalista deve tornare a parlare con il coraggio delle proprie idee e della propria visione; e deve farlo in maniera chiara, decisa, senza ambiguità né tentennamenti. Al di là e nonostante tutto quello che, nel suo stato imperfetto attuale, l’Unione ha fatto per tutti i suoi cittadini, in termini di benessere economico e sociale, e quello che potrebbe fare ancora, e meglio, se davvero rinascesse come costruzione federale, ciò che davvero conta in questa contingenza storica così particolare è riprendere in mano il vero filo conduttore del federalismo: la speranza in un futuro migliore.

Si tratta di una trasformazione, o meglio ancora di una rinascita. In quanto tale, si tratta anche di un processo che, è doveroso ricordarlo, non può avvenire istantaneamente. Ciononostante, esso deve avvenire. Come? Si è già detto dell’importanza che i giovani hanno e devono avere per il futuro della lotta federalista. Molto spesso definiti nelle più svariate circostanze (e, sia detto, un po’ pigramente) come “i cittadini del futuro”, essi sono anche e innanzitutto i cittadini di oggi, non bisogna dimenticarlo. In questo senso, la Gioventù Federalista Europea ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale, nel tentativo di diffondere, spiegare, si potrebbe dire anche ‘attivare’, il messaggio federalista tra i giovani cittadini europei. Ne consegue che è proprio la GFE ad essere chiamata all’importantissimo ruolo di fulcro della rinascita federalista. Lungi dall’essere un’opzione, si tratta di una necessità imprescindibile. Per fare ciò, per contribuire al diffondersi di una nuova speranza tra i cittadini più giovani è necessario anche andare oltre la diffusione, la spiegazione: è necessario toccare direttamente i tasti più dolenti i quali sono spesso quelli più ‘materiali’. Le difficoltà di entrare nel mercato del lavoro (e, appunto soprattutto per i giovani, la diffusione del lavoro in nero), i disequilibri fiscali con la relativa insostenibilità del sistema pensionistico, le assai poco oculate decisioni in materia di spesa ed investimenti pubblici da parte dei vari governi: tutte queste problematiche, e le molte altre che qui si tralasciano solo per ragioni di spazio, pur da sempre presenti sono state esacerbate fino al colmo dalla pandemia, dalla crisi, dalle restrizioni. Tutte insieme (ed unite a questioni su scala decisamente globale quali il cambiamento climatico e le sue conseguenze, giusto per menzionarne una tra le più pressanti) esse costituiscono il ‘nocciolo duro’ che la GFE e la sua azione devono andare a colpire; esse sono la vera barriera che impedisce a questi cittadini di guardare al futuro con la fiducia, o almeno con la speranza necessarie per il successo di qualsivoglia progetto politico di ampio respiro.

Quanto detto finora significa anche che la platea a cui la GFE stessa si rivolge dev’essere ulteriormente ampliata: sarà necessario trovare un modo per parlare anche a tutti quei giovani che sono indifferenti, fors’anche ostili, all’idea di Europa; a tutti quei giovani che difficilmente sono inquadrabili nella definizione così spesso abusata di “Generazione Erasmus”, e che spesso l’Europa l’hanno conosciuta, forse, solo come turisti e ‘di sfuggita’; a tutti quei giovani, in pratica, cui le difficoltà del momento presente e le inesistenti prospettive future, nonché spesso la vita passata ai margini, nelle periferie (delle città come della società), impediscono di ‘alzare la testa’ e guardare ad un progetto come quello federalista come a qualcosa di davvero concreto, realizzabile e, per ciò stesso, degno di essere portato avanti.

È difficile definire così, per sommi capi, come questa lotta per così dire preliminare, vada condotta. Tuttavia, si può già qui ipotizzare che essa debba essere svolta nel modo più capillare possibile e sfruttando tutte le possibilità che le tecnologie contemporanee concedono. Dev’essere accompagnata, anche e dove possibile (cosa non scontata in quest’ultimo periodo), dalla presenza fisica, in mezzo alle strade. Essa, tuttavia, dev’essere innanzitutto accompagnata da un rinnovato linguaggio politico. Il linguaggio del federalismo attuale non è più sufficiente: esso appartiene ad un mondo dove la battaglia si combatteva (giustamente, viste le circostanze) per le istituzioni europee, nel senso più ampio del termine. Quel mondo non esiste più. La battaglia adesso è per la sopravvivenza: del federalismo, dell’Unione, delle democrazie europee, degli stessi cittadini (presenti e futuri) e delle loro possibilità di avere davvero un futuro degno di questo nome. Il linguaggio che il federalismo deve adottare è quello di un’idea che dà, innanzitutto, speranza; un linguaggio che parli dei piccoli (e non così piccoli) problemi del quotidiano di ogni cittadina e cittadino, e soprattutto di quelli che più di altri stanno pagando le conseguenze di scelte politiche ed economiche scellerate, e di una crisi senza precedenti.

In un presente dominato da numeri, siano essi statistiche economiche o contagi, la nuova lingua da parlare è quella delle idee. Il prezzo dell’immobilismo è la sconfitta definitiva.

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom