Il tema del militantismo federalistico, che costituisce il nostro patrimonio culturale in ordine alla politica dei quadri, ha una premessa teorica essendo in questione, di fatto, la natura della vita morale. L’esperienza, che inizia con Spinelli e si prolunga sino ad oggi, è un’esperienza al limite delle capacità umane della vita morale e si può proprio temere – è uno dei nostri grandi interrogativi – che sia al di là delle possibilità umane. Non c’è niente di strano in tutto questo, anche se detto così può sembrarlo. Infatti, riflettendo sulla natura del nostro obiettivo politico, noi ritroviamo che la federazione europea è sentita come una cosa impossibile da realizzare o, per lo meno, impossibile da realizzare nel tempo dell’azione delle persone che riflettono su questo problema.
Ogni volta che si è proposto il tema della federazione europea (la problematica è vecchia, inizia, in qualche modo, al tempo della rivoluzione francese), si è sempre pensato che è una cosa ragionevole, da perseguire, ma ipso facto si è sempre pensato a una cosa che riguardasse chissà chi, il futuro, ma non chi faceva queste riflessioni. C’è un cimitero degli elefanti a questo riguardo: le persone che si sono più battute contro la CED (come Mendes France per esempio), avevano scritto il loro libro sugli Stati Uniti d’Europa. Questa è la maniera normale di pensare a questo fenomeno. Per quanto riguarda i federalisti, essi hanno una certezza razionale, una certezza di tipo storico: noi sappiamo che è l’obiettivo più difficile che si possa presentare nella vita politica. È, sotto il profilo razionale, molto più difficile dei grandi episodi rivoluzionari della storia, perché essi si risolvevano nella conquista di un potere esistente, mentre la federazione europea è un compito che va al di là di fatto del potere, perché comporta la creazione di un potere in un’area dove vi sono già poteri statali.
Quello che si pensa dell’obiettivo e quello che diciamo dell’obiettivo, dobbiamo pensarlo nell’azione che si vuol fare per raggiungere l’obiettivo. Se non traduciamo queste constatazioni sull’impossibilità o sulle difficoltà riguardo all’obiettivo e sull’idea delle difficoltà o dell’impossibilità di un’azione per perseguirla, noi dividiamo la mente in due. Abbiamo una maniera di ragionare quando si pensa all’obiettivo, abbiamo una maniera diversa di ragionare quando si pensa all’azione che si può, in ipotesi, fare per perseguirlo. Sotto questo aspetto, bisogna dire che Spinelli è un’eccezione, non fa testo per quello che è stato, per quello che è, per quello che ha fatto. Secondo la fenomenologia di Hegel è un uomo cosmico-storico. Spinelli è un uomo che pensa da solo, agisce da solo e con questo tipo di realizzazione umana ha fatto quello che ha fatto. Quindi questa nostra esperienza circa un’azione che comporta una morale al limite delle possibilità umane, non è esemplificata da Spinelli. E’ un problema che sorge quando siamo di fronte ad un uomo cosmico-storico. Noi sappiamo che gli uomini cosmico-storici sono esistiti. Hegel ha un’intuizione molto profonda sul significato di questi uomini, che non hanno pensato quello che hanno fatto ma sono coincisi con un’epoca della storia umana. Si tratta dunque di andare al di là di Spinelli che, pur essendo uomo di eccezione, non è nei limiti dell’azione, è un episodio singolarissimo che pur rientra in qualcosa che conosciamo già, che rientra in una casistica già studiata.
Quando passiamo all’azione per fare l’Europa, pensiamo in termini di uomini che agiscono, in termini di movimento, quindi pensiamo in termini di una morale vivente, espressione migliore di «etica» per distinguerla dalla morale pura, kantiana. Ebbene, in termini di morale vivente, che corrisponde a una pratica di uomini che si manifesti davvero nel quadro storico, nel quadro politico, noi siamo ai limiti della capacità morale. Capacità morali di questo genere, finora, nella storia non sono mai esistite. È un’esperienza di frontiera, è un’esperienza di innovazione.
Vorrei anche dire, come premessa, che questa riflessione sulla politica dei quadri, sul militante, sulle caratteristiche morali dell’azione del militante non è costruita a priori, né costruita sui libri. Abbiamo una riflessione orale, un’esperienza che non è nata a priori, prima che noi si cominciasse ad agire; questa esperienza difficile è nata come risposta ai casi della vita nel quadro di un impegno politico, inizialmente quando è stata in questione l’Europa. L’Europa è stata in questione in un modo drammatico che ha fatto nascere l’imperativo dell’unità durante la Resistenza. Quindi, l’impresa dell’Europa, l’azione umana per l’Europa, nasce nella Resistenza come lotta contro il fascismo e il nazismo. Nella testa di Spinelli, del resto, la federazione europea è il modo di sradicare definitivamente il fascismo e il nazismo.
Quando questa esperienza nasce, quelli che l’hanno fatta fino in fondo in un modo teorico e in un modo vissuto, hanno semmai riscoperto le vecchie categorie machiavelliche. L’esperienza che abbiamo fatto, che io ho condiviso con molta gente della mia generazione, era un’esperienza che portava alla conclusione che la politica e la morale sono due cose diverse. L’esperienza era quella della ragion di stato, di sentire sino in profondità il pensiero machiavellico. In definitiva un antifascista era impegnato perché non ci fosse più un mondo con la violenza fascista; ma per risolvere questo problema dell’abolizione della violenza, doveva esercitare la violenza, doveva uccidere. Quindi, chi ha fatto davvero questa esperienza della Resistenza, l’ha fatta in termini che comportavano la riscoperta o la precisazione del pensiero di Machiavelli, del pensiero della ragion di stato, del pensiero secondo cui, dove c’è un obiettivo politico, il criterio della condotta politica è quello del potere. E il modo di acquistarlo, tenerlo, difenderlo comporta delle regole che sono spesso quasi sempre in conflitto con le regole del diritto e della morale.
Da questa esperienza emergeva un limite di carattere politico, per cui l’azione doveva essere tenuta sul campo nazionale. Infatti, se la politica è l’arte, la condotta umana, nella quale si ha come relazione il potere e, dato che il potere è a livello nazionale, ne consegue che o non ci si occupava dell’Europa o ci si occupava dell’Europa nella politica nazionale. Questo è un fenomeno che ha riguardato Spinelli, me e i vecchi, in un’epoca anteriore al momento in cui ci siamo occupati di Europa, prescindendo dalla politica nazionale e impostando una condotta al di fuori del campo della politica nazionale: questo è venuto con la sconfitta della CED, non prima. Spinelli nel 1946 abbandona la lotta federalista, poiché se il criterio politico è quello secondo il quale bisogna agire sul piano del potere, in quel momento il piano del potere aveva escluso i governi, l’America aveva escluso l’obiettivo dell’unità nel ’45. Storicamente era maturata la scelta dei poteri per la ricostituzione degli Stati nazionali, quindi in pratica non c’era più niente da fare.
Sotto il profilo politico, l’esperienza della Resistenza induceva a riscoprire gli elementi del machiavellismo e della ragion di Stato e a limitare e concepire l’azione politica come qualcosa che si esercita nei confronti del potere. Tenete conto che questo era valso persino per Lenin e per la rivoluzione sovietica: era un’azione per conquistare il potere in Russia e, quindi, un’azione dentro ai poteri esistenti e in cui l’azione politica era il mettersi in relazione con il potere esistente allo scopo di conquistarlo. Ma, nella misura in cui nel ’45 si manifesta la tendenza del potere per la ricostituzione degli Stati nazionali, Spinelli addirittura abbandona il M.F.E. e vi rientra quando si profila il piano Marshall, cioè con la scelta americana di risolvere la sistemazione post-bellica non con la divisione classica degli Stati europei sul piano economico e sul piano politico, ma con l’unificazione delle economie di questi paesi e, quindi, in prospettiva con [la loro] unificazione politica.
Questo, di nuovo, si presenta come una pura reazione di potere di fronte a una situazione di fatto. La situazione di fatto era il conflitto con la Russia e la nascita dell’equilibrio bipolare. Per far fronte a questa situazione, per massimizzare le forze nei confronti del nemico, occorreva un’Europa forte. Ma l’Europa non poteva essere forte che con l’unificazione, ed ecco che ricompare l’obiettivo dell’unità, un obiettivo di potere nei confronti della situazione bipolare del mondo e del bisogno dell’America, e in via subordinata degli europei, di massimizzare le loro risorse di potenza. Quando [si annuncia] il piano Marshall, Spinelli torna in azione. Quindi siamo nel campo di un’azione tradizionale, in cui la politica è concepita sulla scorta delle tradizioni del passato, come un’azione che vale nei confronti del potere che esiste.
Il corrispettivo morale che ha segnato profondamente la nostra esperienza e che ancora la segna, perché è un criterio ispiratore per i disegni costituzionali e i disegni politici, il criterio morale che accompagna questa scelta, è quello che Hamilton ha messo in luce con più chiarezza di ogni altro. E’ il criterio di Hegel della connessione dell’individuale e dell’universale, che sta sullo sfondo di tutte le filosofie morali, ma che Hamilton ha precisato con chiarezza in termini politici quando ha scritto quella massima, così feconda, che riguardava la costituzione, il modo di distribuire e di organizzare il potere, che suona così: «l’unica garanzia di fedeltà del genere umano sta nella coincidenza dell’interesse con il dovere». Dove è palese che l’interesse ed il dovere di per sé non coincidono. Naturalmente, l’arte umana, l’arte di migliorare la situazione umana, le virtù che Machiavelli chiamava derivate, quelle che il popolo acquisisce perché il principe riesce a realizzare un certo ordine politico, che poi spinge il cittadino a una condotta politicamente sana in uno stato sano e, quindi, a una condotta virtuosa, sta dunque nella coincidenza dell’interesse con il dovere. Se l’interesse coincidesse direttamente con il dovere, se la morale si realizzasse davvero secondo i suoi paradigmi massimi, allora non si porrebbe la questione del potere come precondizione della morale. Se l’orientamento del potere, la pressione che il potere esercita sulla condotta umana è nel senso del dovere, ci saranno condotte doverose, altrimenti no. Questo è il punto dal quale siamo partiti: la coincidenza dell’interesse con il dovere, che è caratteristica della morale machiavellica, della morale della ragion di stato, e che evidenzia una verità empirica perché riguarda una massima che delimita la condotta di ciascuno.
La massima formulazione etica di questa situazione si trova in una parte dell’etica politica di Weber: quella che noi abbiamo sempre praticato, sulla quale abbiamo sempre messo l’accento, che abbiamo portato in vita e rilanciato nel dibattito culturale; la morale della responsabilità. Proprio teorizzando la vita politica, la professione e l’azione politica, Weber mostra come non vi sia una morale sola e che la morale che caratterizza la vita politica non è la morale cristiana, non è la morale kantiana del dovere come forma autonoma che regola l’azione, ma è la morale della responsabilità. Questo tipo di morale è una casistica umana e, quindi, il sociologo deve semplicemente prenderla in considerazione. E’ un’azione nella quale vale la massima machiavellica del fine che giustifica i mezzi. Anzi Weber, almeno implicitamente – perché si tratta di brevi annotazioni a conclusione del suo saggio sulla politica – mostra che questa massima (il fine giustifica i mezzi), che ancora oggi è pensata come una massima demoniaca, rappresenta ancora una difficoltà della cultura nel pensare Machiavelli. Machiavelli affascina e attira perché rivela una condizione umana reale, e nello stesso tempo respinge, perché sembra demoniaco. Secondo Machiavelli per raggiungere un fine morale bisogna violare il diritto, violare la morale dei principi, essere disposti a uccidere e morire. Questa morale Weber l’ha dissacrata perché ha mostrato che – se la morale della responsabilità arriva nei casi politici a livelli estremi che vediamo entrare in gioco in questi giorni: l’uccisione come mezzo dell’azione – questo avviene perché essa è ancora una prerogativa di tutti gli stati del mondo.
In tutto questo confuso agitarsi di Reagan nei confronti di Gheddafi c’è in definitiva l’idea di ucciderlo, che è una scelta politica, un problema che esiste sul campo. Si imputa a Gheddafi tutto quello che sta accadendo. Evidentemente è un errore di prospettiva, perché la fonte di quello che sta accadendo è la questione palestinese. Gheddafi prospera sulla questione palestinese. Comunque in queste vicende, ammesso che le cose stiano come pensano alcuni – se uccidere Gheddafi oppure no –, il problema sul tappeto è politico. Del resto Kennedy si era posto il problema, glielo avevano posto – se uccidere o no Castro – e la decisione relativa di non ucciderlo è stata politica, non morale. Kennedy ha fatto il calcolo che i danni che l’America avrebbe riportato sarebbero stati maggiori dei danni derivanti dall’esistenza di Castro. Ed è sulla base di questo criterio di potere che Kennedy ha scelto di non uccidere Castro. C’era un piano della CIA – oggi si sa perfettamente – che Kennedy aveva ereditato diventando presidente e che per un certo tempo aveva portato avanti.
La morale della responsabilità, che arriva a questi elementi drammatici nei quali acquista carattere demoniaco e getta una luce cruda sul destino tragico degli uomini, è una cosa comune che noi proviamo tutti i giorni nella vita. Ad alto livello si arriva alla prova demoniaca di uccidere, a livello basso all’inganno a fin di bene del padre verso il figlio. Anche in quest’ultimo caso c’è la frode. Le caratteristiche che Machiavelli ha messo in evidenza, della frode e della violenza, caratterizzano un’infinità di casi della nostra vita, quindi, sono da considerare come una cosa che appartiene alla condizione umana. Del resto, mentre non si [colloca] nella sua effettiva dimensione umana la massima “il fine giustifica i mezzi”, si dà a volte la medaglia al valore a chi ha esercitato la violenza su qualche criminale per impedirgli di fare del male: ecco la responsabilità, perché si poteva intervenire o non intervenire.
La morale della responsabilità dunque, è una cosa diversa dalla morale cristiana, kantiana, dalla morale del dovere e non è una casistica eccezionale sebbene raggiunga livelli drammatici, ma riguarda la nostra vita. Noi siamo continuamente immessi [nell’ambito della] responsabilità per evitare mali che provengono dalla condotta immorale, dalla frode, dalla violenza.
Quindi, noi veniamo da questa esperienza e, quando passiamo all’esperienza successiva, non ci passiamo disarmati, come degli ingenui che pensano che la morale vale da sola, che il bene deve essere perseguito senza alcun’altra considerazione di ulteriori elementi, così come può [accadere] in una certa edificazione religiosa, sia protestante che cattolica, o di altre religioni, che prospettano il bene come una cosa che si può fare perché gli uomini sono buoni. No, gli uomini non sono buoni, forse lo diventeranno, ma l’umanità è ancora in una lotta [drammatica] per fare diventare buoni gli uomini. C’è un progresso in tutto questo, ma gli uomini nascono feroci e, forse, diventano buoni. Per questo, la morale della responsabilità è uno degli elementi fondamentali nella considerazione morale.
L’esperienza successiva e il problema che si è determinato per noi, perché ce lo ha offerto un caso della vita nel quadro del nostro impegno politico, nasce su un terreno solido perché non misconosce l’eredità che gli uomini hanno nel campo morale. Questo caso della vita, che ci ha posto un interrogativo sulla natura della morale, nasce quando sorge il problema di fare i quadri federalisti. A questo punto e non prima. Fino al 1954 non è esistita la politica dei quadri nel MFE perché il potere di cui avevamo bisogno non si otteneva facendo dei quadri federalisti. Lo si otteneva dedicando tutte le nostre energie a far diventare sempre più europeisti gli uomini dei partiti. Sino al 1954 c’è stata perfetta coincidenza di politiche nazionali e di politiche di costruzione dell’Europa. Si trattava di costruire l’esercito europeo e questo problema da solo scavalcava le sovranità nazionali: impegnarsi per l’Europa era impegnarsi per la CED e viceversa. Si poteva capire poco quello che succedeva, e in realtà gli uomini [di quel tempo] hanno capito poco, ma obiettivamente l’azione aveva questo carattere. In una situazione di questo genere sarebbe stato un tradimento rispetto all’obiettivo dedicarsi a fare i quadri federalisti, sarebbe stata una cosa intellettualistica, oziosa: si perdeva o si vinceva aumentando la dose di europeismo che si iniettava negli uomini politici.
In realtà, dal 1948, quando l’azione riprende, al 1954, non c’è neanche l’idea delle scuole quadri; c’è l’idea della diffusione del pensiero federalistico, ma è ancora il vecchio pensiero federalistico istituzionale non un impegno teorico per un’azione autonoma in relazione all’Europa. Quando si tratta di fare dei quadri federalisti, invece, sorge il problema della leva da sfruttare per far nascere questi quadri. Questo problema nasce quando la politica nazionale e la politica europea si dissociano completamente. Nella testa di Spinelli e di coloro che l’hanno seguito – tra cui io –, nasce l’idea che la politica di costruzione dell’Europa si può fare solo in una posizione drastica e dura nei confronti della politica nazionale. Tutto questo ha avuto per forza di cose una connotazione massimalistica ed estremistica. È vero quello che Lenin dice, cioè che l’estremismo è la malattia infantile del comunismo, ma non solo del comunismo, di qualunque cosa. L’estremismo è per definizione legato al fatto che quando un piccolo gruppo di uomini o un uomo solo sente che è necessario inoltrarsi su una strada nuova, per poter rimanere su questa strada, da solo o in pochi, ha bisogno di trovare fuori di sé qualche cosa che sia già dello stesso segno. E’ fatale che le idee nuove quando appaiono nella storia del mondo abbiano una certa violenza estremistica. Tuttavia, nonostante questa ridondanza estremistica, non sarebbe stato possibile far nascere una prospettiva d’impegno per l’Europa. In quella situazione, senza un’opposizione intellettualmente violenta [verso] la politica nazionale, [non sarebbe stato possibile] far nascere l’atteggiamento costituente e costituzionale.
Orbene, l’atteggiamento costituente e costituzionale, in termini giuridici, è una cosa evidente, mentre in termini d’impegno politico reale è una rivoluzione. Si trattava di andare contro i poteri che esistevano e, cosa che non abbiamo capito subito ma che si è rivelata strada facendo, si trattava di fare politica al di fuori del quadro dei poteri che ci sono e quindi di risolvere un problema nuovo. Non potevamo appoggiarci sul potere per questa impresa. Tenete conto che si appoggia sul potere anche l’impresa contro il potere. Lenin si è appoggiato sul potere. Senza il potere russo – il potere russo disgregato dalla guerra mondiale – Lenin non sarebbe riuscito, avrebbe aspettato la rivoluzione mondiale come la stava aspettando prima. Quindi, appoggiarsi sul potere non vuole solo dire servirlo o averlo o essere i cortigiani. Appoggiarsi sul potere significa anche opporsi al potere con l’idea di prenderlo.
Noi stavamo al di fuori di tutto questo. Non avendo il potere come risorsa per un’azione politica, noi ci siamo trovati in mezzo a questa novità. Allora qual era l’appiglio? Non ce n’era che uno solo. Se era possibile pensare che la contraddizione tra valori e fatti potesse diventare un esercizio di responsabilità personale, noi avremmo potuto avere dei militanti. Tale contraddizione noi la stavamo sperimentando, l’Europa la stava sperimentando, tutti gli stati l’avevano sperimentata nel momento di costituirsi, perché la fenomenologia di questa storia comincia con l’esperienza della città stato. Se in una situazione di questo genere gli uomini fossero stati capaci di appoggiare un’azione politica sulla contraddizione tra valori e fatti, sino a portarla al livello di una responsabilità personale, noi avremmo potuto formare dei quadri federalisti. Altrimenti no, in quanto non c’era nessun appiglio: né quello del potere, né quello della morale.
Questo elemento ha dato luogo a un episodio che è, dal punto di vista umano e dal punto di vista affettivo e sentimentale, il più duro della vita di alcuni di noi, di quelli che come me e * * * erano già in campo e che erano i pochi rimasti – ben pochi, due o tre – dopo la ribellione a Spinelli. Ribellarsi a Spinelli era una cosa così tragica per [ciascuno] di noi che sembrava quasi impossibile, [tuttavia] noi avevamo la convinzione che con la politica che proponeva Spinelli, il MFE sarebbe morto. Nel 1960 Spinelli si proponeva di partecipare alle elezioni amministrative a Milano, a Lione e non ricordo dove ancora e di gettare il movimento nell’avventura elettorale nazionale. Tutto questo era poco chiaro. Forse Spinelli pensava alle amministrative per costituire uno schieramento in vista delle elezioni nazionali, ma la sostanza della cosa era questa: da una parte c’era Spinelli con queste proposte e dall’altra noi che pensavamo che Spinelli stesse uccidendo il movimento e temevamo, agendo contro Spinelli, di uccidere a nostra volta il movimento. Quando ho scelto di agire contro Spinelli l’ho fatto pensando che, se la politica di Spinelli avesse avuto successo, il MFE sarebbe comunque morto. Se non avesse avuto successo, il MFE sarebbe stato travolto.
Oggi sappiamo che avevamo ragione a pensare così: i federalisti francesi si sono ridotti a niente proprio perché hanno ripetutamente scelto l’avventura elettorale nazionale, che li ha consumati, che li ha fatti contare. Quando si piglia l’1% o lo 0,5% dei voti a fronte di chi ne piglia il 20% o il 30% o 40%, l’avventura si conclude con l’impotenza. E l’impotenza uccide qualunque politica. Quindi, dato che Spinelli uccideva – certamente e comunque – il MFE, ad un certo punto siamo andati contro Spinelli. Oggi sappiamo che questa è stata una fortuna persino per Spinelli, che si è trovato poi nuovamente appoggiato da una MFE che aveva lentamente ricostruito la possibilità di agire. Ma allora, Spinelli, io, * * * e pochi altri, sapevano che non c’erano federalisti, o che c’erano più federalisti del vecchio tipo, capaci [solo] di dare un’intonazione federalista alla politica liberale, o socialista ecc. Per questo pensiamo ad Einaudi come un pre-federalista, che al momento di fare una scelta federalista autonoma se la sarebbero squagliata. Voi sapete del resto che Robbins nel momento di fare la federazione europea ha scelto di mettersi contro e non a favore. Forse questa è la massima coscienza federalista che si può manifestare nell’ambito di una vecchia ideologia (nella fattispecie quella liberale). Una coscienza che ha dato un contributo teorico fondamentale al pensiero di Spinelli e al pensiero di tutti noi, ma che al momento della scelta fa una scelta liberale, una scelta liberal-nazionale, una scelta per l’Inghilterra contro l’Europa. Robbins ha fatto questo tipo di scelta.
Avevamo quindi tutti e due il problema di trovare dei quadri, perché per l’una o per l’altra ipotesi valeva il fatto che, senza quadri federalisti autonomi, non si faceva né la politica di Spinelli, né la politica che noi, quando in seguito ci siamo caratterizzati come Autonomia federalista, vagheggiavamo di fare. Sia la corrente di Spinelli, che voleva lanciare il MFE nell’avventura elettorale, sia noi che volevamo tenere fermi certi aspetti che erano emersi con la politica del Congresso del popolo europeo, avevamo bisogno di quadri. Per fare i quadri Spinelli aveva puntato sul potere. Io avevo la convinzione che era assolutamente impossibile, perché per puntare sul potere bisognava che scattasse il meccanismo della coincidenza dell’interesse e del dovere e, quindi, se non era pensabile una rapida creazione dell’Europa, che avrebbe buttato una classe politica intelligente sul versante dell’Europa, era chiaro che quadri federalisti non se ne sarebbero fatti.
Ecco perché Autonomia federalista, l’esperienza che abbiamo fatto, ci ha spinto a puntare non sul potere, ma sulla morale. Questo è stato l’inizio della nostra esperienza: un’esperienza di vita morale che teneva conto di tutta l’eredità della ragion di stato, era un’esperienza di vita morale che non ignorava che la politica degli altri, la politica che crea e impone poteri, è ancora la politica della coincidenza dell’interesse e del dovere. Questo ha spinto noi, come aveva spinto Spinelli che del resto era un ex-comunista, a tenere molto in vista le categorie dell’esperienza comunista, che ci sono sempre sembrate preziose. L’esperienza di Lenin era quella del rivoluzionario professionale e noi pensavamo che senza di questo – che adesso purtroppo viene chiamata «professionalità» ed è una parola sprecata dal cattivo gusto dei mass-media – noi saremmo caduti vittima dell’europeismo, che si caratterizzava sì per essere orientato verso l’Europa, ma in modo così vago da non essere capace di precisare nessun obiettivo.
Per uscire da questa vaghezza, dalla quale nessuna azione seria poteva nascere e nessuna svolta seria poteva essere perseguita – né politica, né culturale – noi avevamo bisogno della professionalità, che significa poi dedicare alla lotta federalista una passione, una intensità maggiore di quella che si destina alla propria vita personale. Se si voleva puntare sulla morale, si doveva puntare su questo fatto.
È così che sono venute fuori le prime regole del mezzo-tempo e dell’esperienza culturale. Però non va dimenticato che questo mezzo tempo e questo mettere l’accento sull’esperienza culturale - nel senso che noi eravamo titolari di una verità - sono alla base della nostra capacità di fare politica con professionalità, con una base morale ma con la stessa precisione con cui la possono fare gli altri, occupandoci davvero del potere e della sua evoluzione e non facendo le solite prediche lagnose dell’europeismo. Voi avete incontrato degli europeisti: quando l’europeismo esce dalla sua sede naturale che è il popolo, dove si manifesta semplicemente come una propensione, e quando pretende di essere una capacità politica e culturale, dà luogo a una schifosa fenomenologia da cui scaturiscono le cose più incredibili, perché si spaccia per banale e facile ciò che invece è così difficile.
Insieme a queste due regole ce n’erano altre due, o almeno una chiarissima e una che è stata una pratica di vita. C’era innanzitutto la regola che individualmente nessun uomo è capace di esercitare fino in fondo la vita morale in una casistica così difficile come la lotta per il potere e che quindi noi dovevamo passare attraverso esperienze politiche [collettive]. Il primo strumento politico su cui poggiare era quindi il movimento stesso. La capacità di far vivere il movimento era la capacità di far vivere un’istituzione nella quale ciascuno di noi avrebbe trovato il fondamento di questa scelta così difficile: la capacità di far vivere il movimento, di proiettarsi nella vita politica non come individui isolati, ma come individui che appartenevano al movimento e quindi entravano in qualche modo nella lotta politica. Il movimento era ed è un fatto di potere, piccolo fin che si vuole per quanto riguarda l’esecuzione, ma con un’enorme capacità d’iniziativa. Il movimento era quindi l’istituzione che ci metteva in un rapporto di potere con la vita politica ed era il prerequisito assoluto perché un’esperienza di questo genere potesse svilupparsi. Quindi voi vedete un’azione morale, ma che si vuole sviluppare su un terreno politico e che è condizionata da questo.
Il secondo elemento, che è stato di carattere più vissuto che teorizzato, consiste nel fatto che quando abbiamo iniziato questa esperienza, che ha una sua incubazione nel Congresso del popolo europeo e si manifesta chiaramente nel 1960 dopo il fallimento di questa iniziativa, eravamo all’opposizione, un po’ astratta, se consideriamo la nostra esperienza rispetto a quella degli stati, un’opposizione dura: c’era della gente che aveva il potere nel MFE, nell’UEF e lo volevamo noi. Orbene, per esercitare questa opzione di conquista di un potere, un potere piccolissimo ma per noi decisivo, il potere di controllare il federalismo organizzato, noi abbiamo vissuto intensamente una vita di corrente politica all’interno dell’organizzazione federalista. Autonomia federalista si riuniva a Basilea con una frequenza notevolissima. Oggi è un po’ diverso. Adesso ci troviamo insieme in alcune circostanze formali, che sono quelle dei comitati centrali o federali, e poi cerchiamo di ricostruire questa integrazione più ricca attraverso contatti che non siano quelli delle istanze decisionali attraverso le riunioni per la rivista [«Il Federalista»] e il «Dibattito federalista». Allora noi avevamo bisogno di una tattica unitaria come gruppo per poter conquistare il potere (un rilevante potere se non tutto il potere) nell’organizzazione federalista. Questo dava luogo a riunioni di corrente molto intense, nelle quali ciascuno di noi ha veramente imparato a far vivere questa specie di essenza spirituale, che pure è evidente, ma sempre in una maniera un po’ astratta, del pensiero politico. Abbiamo fatto vivere un pensiero politico collettivo.
Nessuno di noi ha mai pensato, nemmeno io che ero il più vecchio, di essere più capace degli altri. Questo veramente non c’è mai stato. E in questi anni nessuno di noi ha pensato “io valgo più degli altri, quindi espongo una linea e poi mi seguiranno”. Ciascuno di noi, se aveva un’idea nuova, prima di farla uscire dal gruppo, la discuteva con gli amici e solo con il conforto della prima rispondenza ad un’idea nuova, ad una variante, ad un nuovo spunto organizzativo, solo quando diventava il pensiero di tutti noi, questa cosa funzionava.
Quindi noi ci riunivamo a Basilea una volta al mese, non di meno, con i federalisti del Nord Italia, con qualche federalista tedesco e francese, perché la politica che volevamo fare si doveva esercitare in un quadro europeo e ormai c’era il MFE sovranazionale [MFEs] italo-francese. C’era questa integrazione di tutti in un pensiero comune, in una volontà comune, che ci ha resi capaci di fare una politica, appoggiata soltanto sulla vita morale, che è stata alla base della riunificazione di tutti i federalisti.
In questa esperienza sono venute fuori le conseguenze ultime di questa scelta, che rovesciano le prospettive della vita normale e della vita politica normale. In realtà nella vita normale la considerazione che muove gli individui è l’individualismo con uno scopo individuale, non collettivo. Non si può fare né una vita professionale, né una vita di lavoro, né una vita universitaria, né fare affari economici, né avere una certa situazione economica, senza identificarsi con un individualismo che abbia scopi individuali. La vita è competitiva, e quindi tutti noi, sia che lo teorizziamo oppure no, che ne siamo consapevoli o no, siamo legati ad una vita di competizione, ad una vita egoistica, cioè ad una vita immorale, se prendiamo come concetto morale quello della morale cristiana o della morale kantiana del dovere, perché noi siamo in realtà in competizione con tutti gli altri. Il nostro modo normale di comportarci è quello di ingrossare il più possibile il nostro bottino sociale, cercando di diminuire quello degli altri.
Naturalmente su tutto questo si stende un grande velo di ipocrisia e di automistificazione, ma la realtà è questa. Tutto ciò ha uno sviluppo molto particolare nella vita politica. Nella vita politica c’è veramente la lotta di tutti contro tutti. Non c’è solo la lotta dei democristiani contro i comunisti. C’è anche la lotta di tutti i democristiani contro tutti i democristiani: è persino istituzionalizzata con il sistema delle preferenze che impone a tutti di fare la lotta contro tutti. Quando un partito va alle elezioni, non c’è una lotta dei partiti contro altri partiti; sotterranea e ancora più forte c’è la lotta delle preferenze, perché è quella che mobilita e che i partiti non vogliono abbandonare, perché con le ideologie in crisi la vanità e l’interesse si mobilitano con le preferenze. Voi vedete un mucchio di imbecilli che si scatenano nelle elezioni politiche, anche senza nessuna possibilità e spendono un sacco di denaro.
Avevamo dunque bisogno di questo mezzo-tempo, che dedicavamo ad una vera e propria vita morale realizzata, non ad un’attività nella quale vale addirittura la legge della lotta di tutti contro tutti, cioè subordinata al criterio del fine che giustifica i mezzi. Voi sapete che gli individui che si battono in una lista di partito non si uccidono ovviamente l’uno con l’altro, perché questo non è più una risorsa di potere, perché uccidendo un altro si perde potere, non se ne guadagna. Ma per quanto riguarda la «foga», ne avete quanta ne volete: gli «amici», tra virgolette, per i democristiani [significa]: «stai attento perché sto per metterti un coltello nella schiena». Andreotti è un maestro nell’educare la gente e pensare che la vita politica à fatta così, che Dio ci ha fatti così e pazienza. [Il militantismo] a mezzo tempo, questo fatto della cultura di avere un riferimento istituzionale nostro, il nostro inserimento nella lotta per il potere, questo fatto di essere amici gli uni degli altri, di avere una piena fiducia nell’altro, sono stati la nostra vita morale. Notate che la piena fiducia nell’altro è una struttura impossibile nella vita sociale. La costruzione dell’idea di pace che noi abbiamo, che deriva da Kant, nasce proprio dalla constatazione che è impossibile la piena fiducia di ciascuno nell’altro, a meno che non ci siano regole giuridiche che impediscono all’altro di esercitare la violenza.
Pensate che, quando abbiamo lanciato la Rivista nel 1958, avevamo l’idea un po’ utopistica, perché non teneva conto di come è fatto il mondo, di eliminare addirittura i riferimenti individuali. La prima idea era stata di fare una rivista nella quale non sarebbe mai comparso il nome di nessun federalista, con tutti gli scritti anonimi o con degli pseudonimi, in modo da eliminare l’inevitabile riversarsi anche nelle nostre file delle normali motivazioni egoistiche e narcisistiche della condotta umana.
Questo tema è vastissimo. Non posso che dare qualche accenno. In fondo è in gioco la teoria morale. Ma vorrei soffermarmi ancora su due problemi. Il primo è che le regole che noi abbiamo fissato allora devono essere, tutto sommato o almeno in parte, buone. Basta confrontare il federalismo italiano con quello francese o tedesco per osservare che noi siamo andati bene e gli altri molto male. Può darsi che si potesse fare di più, può darsi che regole ancora migliori potessero darci una situazione ancora più forte. Ma osservando come sono andate le cose sembra difficile. Il secondo è che con queste regole noi abbiamo formulato un problema più che risolverlo, perché per risolverlo si deve affrontare la problematica di cosa è la morale, mentre noi abbiamo cercato di trasferire queste regole nei nostri comportamenti.
A volte questo ha dato luogo a interpretazioni meccaniche; lo ricordo perché ha creato degli inconvenienti. Quando si è parlato di mezzo tempo, si parlava di un concetto limite, sia come fatto riduttivo, sia come fatto estremo. Era un concetto riduttivo, perché se uno poteva fare il pieno tempo, secondo la nostra visione doveva fare il pieno tempo, perché la morale non doveva diventare un comandamento assoluto. Quindi il mezzo tempo non escludeva il pieno tempo e [questo stabiliva la] parità di tutti i federalisti, la piena fiducia qualunque fosse la situazione nella quale ci si veniva a trovare. Per molti anni della mia vita sono riuscito a fare il pieno tempo, con delle difficoltà, arrampicandomi un po’ sui vetri, ma sono riuscito molte volte a fare il pieno tempo. Questo concetto non era quindi un limite nel senso che non si doveva andare al di là del mezzo tempo: uno è federalista anche se, tra i federalisti che fanno il mezzo tempo, lui fa il pieno tempo. Certamente chi fa il pieno tempo si trova in una situazione delicata; io mi sono trovato in una situazione delicata. * * *, mi dicono che si trova adesso in una situazione delicata, perché chi fa il pieno tempo si trova ad avere più le mani in pasta degli altri, quindi deve stare attento che non lo prenda questa tentazione demoniaca del potere di cui parlava, ridendo, Spinelli. D’altra parte il mezzo tempo è un concetto limite, quindi non esclude chi non fa il mezzo tempo. È preziosa qualunque ora dedicata al movimento. Se un individuo, nelle sue circostanze di vita e per poter continuare a vivere, mangiare, vestirsi ecc. non può fare il mezzo tempo e può fare il quarto di tempo, il decimo di tempo, tutto questo è salute.
La vera regola sostanziale è che qualunque individuo che si renda conto di questa situazione dell’Europa, di questa situazione del mondo, dovrebbe dedicare del tempo a questo esercizio morale nella vita politica. Noi pensavamo di vivere non di politica, come avrebbe voluto Spinelli, ma di una vita normale, perché la cosa davanti a noi era lunga e dovevamo restare sul campo anni e anni, senza diventare degli spostati e senza dipendere dalla politica per vivere, cosa che alla fine fa accettare qualunque politica faccia vivere. È tenendo conto di questi elementi che va considerata la regola del mezzo tempo. La nostra esperienza morale deve farci considerare alla stessa stregua chi dedica mezz’ora al mese e chi dedica mezza giornata tutti i giorni o tutta la giornata. Tutte queste persone sono moralmente alla pari se ciascuno di loro fa lo sforzo massimo che può fare nelle circostanze concrete della sua vita per rafforzare la lotta federalista.
La seconda regola è quella della cultura. Non disponendo di una risorsa di potere vera e propria, avendo rinunciato al voto, perché avevamo scartato la proposta di Spinelli, potevamo basarci solo sulla risorsa dell’opinione umana. Bisognava che noi creassimo una corrente di opinione tale da sostenere le nostre ipotesi politiche a danno delle altre, a partire dal dato dell’europeismo diffuso. Quindi, l’elemento decisivo, l’elemento alternativo rispetto al voto, alla violenza o alla pressione sindacale, era la cultura. Anche questo ha dato luogo ad interpretazioni meccaniche e ci ha fatto correre il rischio di sviluppare una gerarchia, che è nostra nemica. Ogni volta che fra noi si sviluppa l’idea di una gerarchia – io valgo più di un altro ecc. –, la nostra esperienza va a catafascio, perché, essendo di natura morale, se non è associata all’uguaglianza, si autodistrugge.
Questo elemento della cultura, che è una stretta necessità per noi, ha costituito un rischio di degenerazione gerarchica, perché tende a selezionare, rischia di selezionare, chi possiede competenza tecnica di certe arti, rispetto a chi non ne ha. Certuni per mestiere scrivono – io, facendo il professore, per esempio, scrivo per mestiere –, certi altri per mestiere non scrivono. È chiaro che quelli che non scrivono per mestiere sono meno abili nello scrivere degli articoli di chi scrive per mestiere. D’altra parte è chiaro che c’è una selezione. Certi tipi di attività umana che sviluppano la capacità giuridica, politica o sociologica o storica abilitano di più a dare una veste tecnica alle nostre prese di posizione culturali. Ma questi fatti, di per sé evidenti, rischiano continuamente di produrre al nostro interno una gerarchia fra chi scrive e chi non scrive. Orbene, questa gerarchia è falsa, perché ignora che l’elemento vitale, l’elemento vivente della cultura umana, non sta nella sua espressione tecnica, ma sta nella sua profondità insondabile. Profondità così insondabile che ha fatto meditare Kant. Quando Kant si occupa di queste facoltà un po’ misteriose, che sono misteriose nel suo quadro filosofico, la facoltà di dell’immaginazione e dello schematismo, due strutture formali che non corrispondono né alle categorie dello spazio e del tempo, né alle categorie dell’intelletto e si presentano quindi in una maniera un po’ anormale nella sua filosofia, parla di arte segreta. Usa cioè un’espressione che mostra come riconoscesse un carattere largamente inconscio a questa dimensione della vita. Kant arriva a dire che la conoscenza è comprensione e che la comprensione viene prima della conoscenza e conclude la conoscenza. Tutto ciò ha un ampio riconoscimento nel sapere orale: le posizioni che noi teorizziamo, e qui emerge una capacità tecnica, nascono dentro di noi come attività che scaturiscono dal potere di immaginazione, dalla capacità schematica, che sono basate sulla facoltà dell’immaginazione di estendere un concerto e di generalizzarlo. Quando Kant parla dello schematismo fa l’esempio del cane: io percepisco il cane, ma poiché è la facoltà immaginativa che ne fa una specie di monogramma, riconosco in ogni cane un cane. Queste sono le attività segrete, in gran parte inconsce, in cui nascono le determinazioni. La cultura tecnica poi le sviluppa.
Tuttavia, non voglio andare avanti su queste cose che riguardano, come ha detto Kant, le profondità insondabili dell’animo umano. Vorrei però mettere in evidenza questo aspetto, quello dell’inconscio, che è determinante nell’intelligenza e nella scienza e che è di un’enorme importanza per far maturare le capacità d’azione e le scelte. Prendete il caso di * * * che ha avuto questa giusta, almeno a me pare giusta, intuizione del rovesciamento della procedura e della presentazione del nostro obiettivo strategico in modo tale da non scatenare nei vecchi termini, cioè nei termini più duri, il contrasto Gran Bretagna-altri paesi. Questa è un’intuizione. La chiamiamo intuizione perché non sappiamo darle un altro nome. Ma certamente non è intuizione nel senso che è un’intellezione improvvisa. No, è un lavoro della mente collettiva che, indipendentemente dalle cure esplicite che noi singolarmente dedichiamo, è nato in noi, è un rovello che abbiamo. E proprio perché c’è stato questo rovello è venuta fuori l’idea, ed è lì che il segno è stato colto, è lì che c’è l’uguaglianza fra gli uomini. Questo non ha carattere tecnico. * * * non ha avuto questa intuizione perché è un sapiente o perché scrive dei libri: ha avuto questa intuizione perché è un militante che ci tiene ad essere a cavallo dei problemi.
Ho evocato questa problematica dell’inconscio nel senso larghissimo del termine. Ma non bisogna dimenticare che c’è l’inconscio di Freud, che è una piccolissima regione dell’inconscio ma un’enorme regione della nostra mente e del nostro cervello. Ho evocato questa dimensione perché è la sola nella quale trova una realtà concreta l’uguaglianza di tutti, che per noi è un postulato indispensabile. Potremmo concludere con questa osservazione su questo aspetto della nostra esperienza morale: dobbiamo essere capaci di fare un’applicazione non meccanica di queste regole sapendo però che senza il MFE, noi non siamo niente, isolati dal MFE noi precipitiamo nella morale degli altri, e se volessimo fare politica senza il MFE, dovremmo farla con il criterio del potere e non della morale. Questa esperienza non è dunque un’opera individuale, è un’opera collettiva che ha come sua istituzione determinata il MFE. In qualche modo, forzando la nostra condotta, perché manca un’opposizione, manca la risorsa di essere all’opposizione all’interno del movimento, dobbiamo riuscire ad integrare le nostre azioni e il nostro pensiero con delle riunioni collettive. Senza queste integrazioni dei nostri pensieri della nostra condotta, delle nostre scelte nelle riunioni collettive, noi non avremmo la possibilità di essere all’altezza della continuità di questa esperienza, che è un’esperienza di fare politica su base morale, un’esperienza che non ha mai fatto nessuno.
Per quanto riguarda il futuro, comunque,tutto questo è ben lungi dal bastare, perché noi abbiamo la piena coscienza dei limiti di questa esperienza. Un [risvolto] è drammatico. Per chi ha una lunga esperienza - 30 o 40 anni - è molto amaro constatare che un’infinità di militanti federalisti che sono entrati da giovani nel MFE, che hanno condiviso questa vita morale, questa convinzione di dover fare un’esperienza nuova, si sono poi allontanati. Questa esperienza, che in ultima istanza si è rivelata kantiana – perché noi diciamo che quello che è vero in teoria deve essere vero anche in pratica, noi diciamo fai quel che devi avvenga ciò che può – è lo sganciamento dalla politica fatta col potere; è la politica fatta con la morale. Questa esperienza, dicevo, ha mostrato esistenzialmente che nessuno può reggere un simile compito se non lo può vivere in un’esperienza collettiva.
Oggi, che manca la profonda motivazione di un’opposizione interna a questa esperienza collettiva, è più difficile, perché si tratta di saper vivere in termini morali anche questo tipo di esperienza. L’integrazione in riunioni collettive del pensiero di tutti, dell’azione di tutti, è avvenuta [nel passato] sotto una spinta di potere: il potere da conquistare nel MFE. Adesso dovremmo essere in grado di applicare le nostre regole morali a questa circostanza della nostra vita. Resta il fatto che noi abbiamo visto che la maggior parte delle persone venute con noi e che hanno condiviso questa esperienza morale, anche nei tempi in cui era più facile fare integrazione collettiva perché eravamo all’opposizione, se ne sono andate. Alcune sono addirittura diventate ostili a noi perché hanno bisogno di sparlare di noi per non pensare male di se stessi. Altre sono buone di temperamento e continuano ad avere simpatia per noi, ma non fanno niente. Non che abbiano cessato di dedicare tempo alla vita politica – nessuno che abbia condiviso la nostra esperienza è in grado di non dedicare tempo alla vita politica, perché che lo si voglia o no la vita politica ci prende, è una parte della nostra personalità –, ma non riescono più a viverla in modo allo stesso tempo autonomo e collettivo.
Il fatto che la maggior parte di quelli che sono venuti con noi se ne siano andati è grave, segna un limite di questa esperienza, profila quell’interrogativo che vi ho in sostanza proposto all’inizio di questo incontro, se cioè questa operazione sia al limite delle possibilità o se sia al di là delle possibilità umane. Se avessimo mantenuto nel movimento tutte le persone che sono entrate, la federazione europea l’avremmo già fatta, non c’è ombra di dubbio su questo. In passato questo era solo un’intuizione, oggi la possiamo spiegare. Ma pensate, se fossero rimasti con noi * * * e * * * come nel 1958, il leader tedesco e quello francese, se avessero mantenuto l’impegno che ho avuto io, che ha avuto * * *, o quello che hanno avuto gli altri che sono venuti subito dopo, noi avremmo avuto un movimento federalista forte in Germania e in Francia. Ma se avessimo avuto un movimento federalista molto forte in questi paesi, l’Unione si sarebbe fatta, e si sarebbe fatta con un programma senz’altro più avanzato di quello proposto dal Parlamento europeo. Avremmo ottenuto prima, più facilmente, l’elezione europea e, poi, un’unione più forte.
In quel che sto dicendo non c’è alcun elemento mitologico. C’è l’elemento razionale e plausibile dell’importanza che ha per noi, nella nostra esperienza, il fatto che, pur avendo conosciuto tutti i termini della nostra posizione, ivi compresa la tematica morale, la maggior parte se ne è andata. Questo interrogativo si aggrava ancora di più quando si tenga presente che noi, dico tutti noi vecchi – perché il problema si pone perché ci sono i giovani, le generazioni che non hanno avuto quello che io chiamo il nostro battesimo – siamo tutti stati fatti dalla II guerra mondiale, dal fascismo, dal nazismo, dall’opposizione a queste cose. Quando riflettiamo sul fatto che siamo riusciti a far vivere una politica su un fondamento esclusivamente morale, [dobbiamo ricordare che] siamo stati portati a questa strana – strana perché inconsueta – esperienza umana, da un avvenimento enorme: la seconda guerra mondiale. È lì che c’è già il fatto topico, che c’è tutta la maledizione del mondo, in cui il mondo conosce il suo bene e il suo male come mai l’ha conosciuto. Ebbene noi siamo figli di questa cosa perché la nostra personalità si è formata nel momento in cui questo male è esploso davanti a tutti noi. Non è un caso se il federalismo che c’è in giro, al di fuori di noi, è il federalismo fatto dalla II guerra mondiale.
Da tutto questo capite la difficoltà che si ha a dare una struttura permanente alle scelte e a mantenere una gioventù federalista europea, non italiana, che resti un po’ sul campo. Perché appena troviamo un giovane fuori d’Italia, dopo due anni questo se ne va in un partito, o si occupa della sua vita professionale, e tutte le speranze muoiono. Perfino * * *, che era un nostro cavallo di battaglia in Frncia, ad un certo punto, è stato travolto dalla vita personale e dalla vita politica e oggi è un uomo che fa politica sulla base del potere e non sulla base della morale. Insomma, quanto più ci allontaniamo dalla II guerra mondiale, tanto più non disponevano di gente formata, battezzata dalla II guerra mondiale, e tanto più abbiamo visto sparire il federalismo, salvo che in Italia, dove è stata fatta questa esperienza intellettuale e morale. Ma il problema che dobbiamo porci, e che riguarda i giovani, è appunto questo: è possibile fare questa esperienza morale senza questo forte marchio esistenziale?
Adesso che questo battesimo esistenziale non c’è più, anzi adesso che c’è il contrario, siamo stati forzati a pensare che fosse la politica l’arma cruciale per decidere tra il bene e il male; per battere Hitler bisognava fare politica, non si poteva fare un’azione morale. Adesso che i giovani si trovano in una situazione di distacco enorme dalla II guerra mondiale, in cui la vita politica si presenta come molto mediocre, ma molto mediocre anche nel senso demoniaco, questa è una scommessa. Credo che ci sia una sola possibilità per il futuro, quella di diventare pienamente consapevoli che questo tipo di esperienza politica federalista oggi può continuare solo se noi riusciremo veramente a darle questo fondamento autonomo, quel fondamento autonomo che noi abbiamo cercato, che in parte abbiamo vissuto, ma il cui zoccolo d’appoggio non era autonomo, perché era il marchio che la II guerra mondiale, il fascismo e l’antifascismo avevano impresso su di noi. Adesso che questo marchio non c’è più, questa esperienza è venuta allo scoperto. È venuto cioè allo scoperto il fatto che questo tipo di esperienza di una politica fondata soltanto sulla morale, che si muove nel campo della politica e quindi esamina e diventa responsabile delle situazioni di potere, è determinata solo da un bisogno morale, cioè da individui che nella pratica politica almeno facciano della loro individualità un mezzo per uno scopo collettivo e non un mezzo per un’affermazione personale.
In ultima istanza, naturalmente, un fatto morale è un fatto morale, quindi ha la sua autonomia pratica, è una decisione pratica, quindi non c’è nessuna teoria – a meno di non avere le idee di Socrate – che possa risolvere un problema morale. Se non ci saranno le scelte pratiche, questa battaglia non continuerà. Questo piccolo virgulto che sembra che sia nato nel mondo si spegnerà e dimostrerà di essere stato un’illusione, che noi abbiamo scambiato per un’esperienza morale autonoma; era semplicemente il marchio esistenziale che i fatti avevano impresso su alcuni di noi con la maledizione che c’era nel mondo. E se, in ultima istanza, è un fatto pratico, uno può avere in testa tutte le teorie che vuole, ma se si tratta di scegliere di essere uguale a tutti gli altri amici, di non proporsi mai come migliore di un altro e di fare, su questa base, politica nel mondo non usando il potere come risorsa personale, la nostra sola possibilità di continuare questa esperienza è di riconoscerla nella sua interezza.
Sul piano teorico – in questo caso la teoria non può da sola surrogare, ma può rischiarare il compito – si dovrebbe riconoscere la natura della questione, cosa che renderebbe più attrezzati per fare le scelte pratiche. Durante questi 20-30 anni non abbiamo mai fatto le constatazioni che vi ho fatto oggi, perché noi non abbiamo detto fin dall’inizio “noi dobbiamo fare un’esperienza morale nuova”. Noi avevamo dei casi politici e abbiamo tentato di risolverli cercando le risorse e le motivazioni necessarie. È stata un’esperienza, un po’ ne eravamo consapevoli, un po’ no, come succede sempre quando si sta facendo una cosa. Tutto questo demone pratico che agisce in noi, senza che noi possiamo controllarlo, ha funzionato in noi come funziona in ciascun altro uomo e – dato che ha avuto un buon terreno di applicazione, il MFE e la lotta per l’Europa – ha dato buoni frutti. Riconoscendo che questo è il caso, noi siamo più attrezzati per poter fare determinate scelte pratiche. Per essere precisi, il caso è che solo attraverso il MFE, attraverso la vita del MFE, si può stabilire se una vita politica fondata solo sul fatto morale può, oppure non può, avere sviluppo.
La difficoltà di questa impresa si può comprendere se si considera che esperienze di individualismo dedicato a scopi esclusivamente altruistici sono stati finora molto frequenti soprattutto – o solo – nell’esperienza religiosa. Ma questa esperienza di azione individuali dedicate a scopi non individuali, nel campo religioso è aiutata potentemente dal dogma e dal sentirsi d’accordo con Dio. E chi pensa di essere d’accordo con Dio trova in sé una forza enorme. Tuttavia, nonostante questa forza enorme, questi sforzi volontaristici, questi sforzi di superamento del narcisismo e dell’egoismo, hanno un raggio d’azione molto limitato, hanno sempre bisogno di moventi sensibili, perché questa azione è, in generale, caritatevole e si svolge con l’ambiguità di essere o caritatevole o ipocrita.
Tuttavia, al di là di tutto questo, la fenomenologia di questa azione è povera, non riesce ad arrivare nemmeno a livello della morale, perché il vero livello della morale è la politica fondata sulla morale: è con l’arte politica che si cambiano le sorti del mondo; facendo la carità si cambia la sorte di un individuo, non dell’umanità. Orbene quest’idea di essere d’accordo con Dio non può nascere tra di noi, perché la nostra è una battaglia politica che si fa con armi politiche. Uno può farla da religioso, può farla da laico. Ma il religioso e il laico si trovano nella stessa situazione su questo terreno perché, quando si deve condurre un’azione di uomini sugli uomini, si devono impiegare risorse umane e non trascendenti o divine.
Il MFE è l’espressione di questo punto determinato della storia, il punto in cui le circostanze politiche impongono di tentare di fare politica su di un fondamento morale. Questo tentativo grandioso è la fenomenologia della lotta per la pace: in definitiva gli uomini riusciranno a trasformare la loro condizione umana se faranno il governo mondiale. Dove “fare il governo mondiale” non è altro che riproporre in termini più ampi la problematica che abbiamo noi, di costruire un potere politico facendo un’azione che non punta sui poteri che ci sono già. Anche la federazione mondiale è un’unificazione di stati e quindi un problema di un potere da creare, non un problema di un potere da conquistare. Il MFE è quindi il terreno sul quale si può fare questo esperimento decisivo per le sorti dell’umanità, su cui si comincia un tipo d’azione, il nuovo modo di fare politica lo abbiamo chiamato, che è la condizione indispensabile per poter pensare al fatto che l’umanità vada verso la pace.
Ciò è molto netto nel pensiero di Kant. Quando parla di federazione mondiale – il governo mondiale è un’idea che Kant non riusciva a pensare ai suoi tempi. Kant cdice nell’Idea di una storia universale: “finalmente, quando la guerra sarà diventata enormemente distruttiva, gli uomini faranno ciò che la ragione gli avrebbe consigliato di fare subito”. Si tratta di una frase molto importante, perché testimonia come la ragione – esercitata individualmente, responsabilmente, non come meccanismo dell’inconscio che spinge l’uomo, a certe conquiste – non ha presieduto fino ad ora le sorti del mondo. E, se la ragione non ha finora presieduto le sorti del mondo, a maggior ragione la morale non ha presieduto le sorti del mondo. La sfida della morale è dunque contenuta in questa breve frase di Kant: se c’è morale noi sappiamo regolare i rapporti fra gli uomini in modo da rendere benefici tutti i rapporti umani. Questo implica, come precondizione assoluta la pace: se non c’è la pace noi non abbiamo una condotta morale. L’esperienza della pace è anche l’esperienza della ragione. Il fatto di riuscire a trovare le vie di una vita politica fondata esclusivamente sul principio morale è la sfida dell’umanità, è la sfida della ragione. Questo è il compito determinante che si è finalmente smanifestato nel mondo e che passa attraverso questi poteri benefici da costruire al di là della lotta per il potere.
Ecco, sapere che questo è il nostro compito è sapere che le sorti dell’Europa, le sorti del mondo ci hanno buttati in quest’esperienza, credo che sia il massimo di cui possiamo disporre per riuscire a fare questa scelta pratica. Il mio augurio è che voi, che dovete ormai fare questa esperienza in termini più autonomi, non vediate la fuga che abbiamo visto noi. Noi abbiamo avuto un tasso di fuga, di abbandono, di diminuzione altissimo. Penso che sia sull’ordine del 80-90%. In alcune città abbiamo avuto la possibilità di far coincidere la vita dell’amicizia e l’impegno politico e lì abbiamo avuto tassi d’abbandono molto bassi. Ma laddove queste circostanze favorevoli – questo riguarda quel 50% di fortuna che c’è nell’avventura politica – non si sono manifestate, il tasso di abbandono è stato enorme. Voi dovete proporvi di avere un tasso di abbandono idealmente dello 0%, ma al massimo del 30-40%. Se sarete capaci di fare quest’esperienza autonoma, senza più il sussidio di marchi esistenziali così forti, allora il mondo camminerà certamente verso la pace. Perché la vita umana è nelle mani degli uomini e l’esperienza federalista è un’esperienza attraverso la quale noi la mettiamo davvero nelle mani degli uomini.
Pavia, 5 gennaio 1986
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