È notizia del 4-5 aprile che le forze di Haftar, mentre nel sud della Libia si preparano nuovi colloqui supportati dall’Onu per discutere delle future elezioni nel paese nord-africano, marciano con decisione dalla capitale del generale, Benghazi, verso Tripoli, sede del governo riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale. Un atto che ha scatenato non pochi commenti sia da parte del segretario generale dell’ONU, Guterres, in visita nella regione, che da parte dei leader religiosi e politici del governo temporaneo libico. Mentre da parte delle Nazioni Unite c’è stato un invito alla de-escalation, alcuni leader locali, come il Gran Mufti Sadiq Al-Ghariani, hanno invitato apertamente alla resistenza anche armata. Le forze di Misurata, roccaforte storica dei ribelli fin dall’inizio del conflitto contro Gheddafi, si sono proposte come linea di difesa contro l’avanzata di Haftar. Il tempo dell’attacco non è casuale. Con i colloqui pronti a partire, Haftar ha tutta l’intenzione di non vedersi escludere dalla corsa futura per il potere e sembra intenzionato a farsi sentire con tutto il peso della sua milizia e di quelle a lui alleate.
Allo stesso tempo anche in Algeria, a seguito delle proteste di piazza che per un mese hanno tenuto puntati i riflettori sul paese, si sta aprendo un momento delicato. Abdelaziz Bouteflika ha rinunciato ufficialmente al potere, costituendo un governo di transizione composto da 21 ministri che, per l’opposizione e le migliaia di giovani e non scesi in piazza, è ancora un simbolo della vecchia élite da cui vogliono il totale distacco. In questo caso, come in gran parte delle nazioni a fondamento o a storia tribale, sono le forze armate, spesso l’organizzazione sia più solida che più organizzata, a fare da giudice ultimo e da decisore. Nel caso algerino, se Bouteflika ha ceduto il potere, è solo perché i leader delle forze militari gli hanno voltato in ultima istanza le spalle. Per le opposizioni le forze armate dovrebbero fare un ultimo sforzo, ovvero abbandonare anche il governo temporaneo, così da costringere la vecchia guardia a ritirarsi e lasciare spazio ai nuovi leader, e allo stesso tempo ritornare nelle caserme, perché sia un processo democratico e dal basso a decidere il futuro dell’Algeria.
In tutti e due i casi, radicalmente differenti, parliamo di nazioni che non sono lontane dall’Europa, al contrario, sono vicinissime. Il caso libico, che imperversa oramai dal 2011, da quando la coalizione NATO ha deciso di supportare i ribelli di Misurata e Benghazi contro il governo di Gheddafi e contro le milizie islamiste, è da manuale per le azioni da non compiere in casi simili. Già otto anni fa, questo caso specifico ha dimostrato come la mancanza di una politica estera comune da parte delle nazioni europee ha permesso ad interessi più disparati, spesso anche ignoranti delle condizioni di un paese come la Libia, di peggiorare una situazione che era già instabile, lasciando così un vuoto all’interno del Nord Africa, riempito o dal potere di singoli, come Haftar, o di milizia islamiste a guida di Al-Qaeda o del sedicente Stato Islamico. Il tentativo ora di Haftar di provare a forzare la mano può essere un testing ground per una risposta unitaria da parte delle nazioni europee. Se l’appello di Guterres è stato prima sottoscritto da Italia, USA, EAU e Francia e poi dal resto del G7 e delle nazioni europee, nella realtà starebbe all’Unione intera decidere di unificare i propri sforzi nel Mediterraneo ed evitare una pericolosa escalation che ha risvolti non solo all’estero, ma per riflesso, anche all’interno dell’Unione stessa. Interessi sia politici, vista la retorica sui flussi migratori da parte delle fazioni sovraniste all’interno dell’Europa, che economici, avendo la Libia grossi giacimenti di materie prime per cui le compagnie europee tendono a competere, che hanno bisogno di una risposta unica che solo l’Unione nel suo intero può dare. La politica mediterranea non può essere un insieme di schegge volanti ed impazzite, ma un unico blocco, che si deve muovere in una sola direzione. Se già Francia e Italia si accordassero per decidere che impulso dare agli sforzi in Nord Africa, sarebbe un passo da gigante rispetto agli anni passati.
Sottoscrivere formalmente una dichiarazione ONU in maniera congiunta è di per sé un gesto simbolico molto forte, servirebbe un passo aggiuntivo, un’opera comune di lavoro, politico ed economico, perché gli sforzi non si fermino alle parole ma diventino azione congiunta.
In Algeria, al contrario, forse sarebbe proprio l’evitare un intervento dai risvolti potenzialmente disastrosi la scelta più saggia e più pragmatica da compiere. La società civile e politica algerina ha mostrato una sensibilità e un attivismo di un grado diverso dalle primavere arabe del 2011, in cui la forza non ha ancora preso il sopravvento sulla voglia di dialogo e di costruire un futuro nuovo. L’Unione può essere un forte garante, se unita e non divisa, per un passaggio di potere che può diventare un esempio storico importantissimo, in virtù anche di quanto successo in Libia, Siria e Yemen nella scorsa decade.
Tutto ciò è possibile solo però se le nazioni europee decideranno di unificare i propri sforzi nell’area mediterranea, collaborando come un’unica entità per garantire risposte non sfaccettate ma piuttosto unitarie, mandando un chiaro segnale sia al Nord Africa che al resto del mondo che all’Europa si può parlare come ad un’unica entità, non ventisette, e che questa entità meritevole di rispetto è capace di garantire stabilità. Sarebbe, per una futura politica estera federale, un passo non da poco.
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