Lo spiegone delle ultime elezioni politiche italiane

, di Cesare Ceccato

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Lo spiegone delle ultime elezioni politiche italiane
Quirinale.it, Attribution, via Wikimedia Commons

Un’analisi delle elezioni politiche italiane, andate in scena domenica 25 settembre. Dalle dimissioni di Mario Draghi al trionfo di Giorgia Meloni e al futuro politico del Bel Paese, passando da una calda campagna elettorale e dal sistema del Rosatellum.

Domenica 25 settembre si sono svolte in Italia le elezioni politiche per il rinnovo delle due aule del Parlamento: Camera dei Deputati e Senato della Repubblica. Elezioni anticipate, dato lo scioglimento delle Camere a opera del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in seguito alle dimissioni del Primo Ministro Mario Draghi. A vincere è stata la coalizione di centrodestra, trainata dal partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, erede del neofascista Movimento Sociale Italiano e appartenente al Gruppo del Conservatori e dei Riformisti Europei.

Come ci si è arrivati?

Mario Draghi - incaricato di formare un Governo di larghe intese a febbraio dello scorso anno per rispondere alle crisi attanaglianti l’Italia, l’Europa e il mondo intero - fin dal primo giorno del suo mandato aveva dichiarato come avrebbe lasciato la quarta poltrona più alta d’Italia qualora anche solo un partito avesse deciso di uscire dalla maggioranza. Ciò è avvenuto con l’abbandono nave del Movimento 5 Stelle che, per vedute opposte sulla guerra in Ucraina e sull’efficientamento energetico dell’Italia, aveva pochi giorni prima subito una scissione tra i sostenitori dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rimasti nel partito, e del Ministro degli Esteri del Governo Draghi Luigi Di Maio, confluiti nella nuova formazione Impegno Civico. Il caos a Palazzo Chigi ha rapidamente portato le forze di centrodestra facenti parte della maggioranza, Lega e Forza Italia, a farsi ingolosire da posizioni di più alto rilievo nell’esecutivo che avrebbe succeduto Draghi e quindi a negare anch’elle la fiducia all’ex Presidente della BCE, riappacificandosi pienamente - almeno sulla carta - con l’altro partito della coalizione, Fratelli d’Italia, rimasto fin da subito all’opposizione.

Rimasta senza più alcuna maggioranza possibile, è iniziata per l’Italia una campagna elettorale unica. La prima della storia repubblicana a svolgersi d’estate e una delle più brevi di sempre a livello temporale. Da subito è emersa l’inadeguatezza di alcuni partiti ad affrontare un periodo simile, su tutti, il Partito Democratico.

Nel corso dell’ultima legislatura, il PD ha trascorso tre dei quattro anni e mezzo al Governo, ha cambiato tre segretari di partito (Renzi, Zingaretti e Letta) e più volte gli alleati; sebbene in una buona posizione secondo i sondaggi, che l’hanno visto risalire di percentuale rispetto al risultato ottenuto alle elezioni del 2018, era evidente come in solitaria non sarebbe stato in grado di vincere. Il primo mese di campagna è stato dunque dedicato dal segretario Enrico Letta alla ricerca dei migliori alleati per sconfiggere il centrodestra. Visto il peso degli avversari, la ricerca è presto diventata verso qualunque alleato possibile, arma a doppio taglio viste le sostanziali differenze ideologiche tra gli schieramenti in campo e che presto ha fatto saltare i nervi a quello che - elettoralmente parlando - risultava essere l’alleato più importante, Azione, partito guidato dal certo poco diplomatico Carlo Calenda. Mentre il PD prendeva sotto la sua ala l’alleanza tra Sinistra Italiana e Verdi, +Europa di Emma Bonino e il già citato Impegno Civico di Luigi di Maio e si vedeva rifiutare dal Movimento 5 Stelle, che, sebbene uscente da una legislatura in cui ha stretto accordi sia a destra che a sinistra, per la terza elezione consecutiva della sua storia ha corso senza alleati, Azione trovava un’intesa con Italia Viva di Matteo Renzi e dava vita al Terzo Polo, lista rappresentativa dell’eurogruppo Renew Europe.

La coalizione di centrosinistra ha improntato i mesi precedenti l’elezione sulla polarizzazione tra essa e il centrodestra, facendo intendere come la sfida per la maggioranza non fosse allargata a tutti i partiti ma in un certo modo limitata alle due coalizioni più grosse, radicalmente opposte su più fronti. Dall’atteggiamento aperto o meno verso l’Europa alle politiche accoglienti o restringenti sui migranti, dalla tassazione progressiva o piatta alla questione diritti progressiva o conservatrice. Un atteggiamento combattivo ma non pienamente convincente, che ha insistito più sui valori dell’alleanza invece di evidenziare strategie politiche o futuri disegni di legge, sfiduciato dal popolo italiano per più motivi: l’effettiva presenza del PD nelle ultime maggioranze che non ha portato a compimento certe promesse, le differenze di programma tra i partiti alleati Sinistra Italiana/Verdi e +Europa su temi urgenti quale la risposta alla crisi climatica, l’appeal del Movimento 5 Stelle e del Terzo Polo e la disillusione che certi impegni presi quando si è alla ricerca del voto altro non siano che parole al vento abbandonabili non appena varcato l’ingresso di Montecitorio o di Palazzo Madama.

Di tutta risposta, il Movimento 5 Stelle si è aggrappato all’immagine del premier della pandemia, Giuseppe Conte, e alle missioni compiute durante la sua presidenza, quali l’approvazione del reddito di cittadinanza e il taglio del numero dei parlamentari. Con un programma straripante di misure di sostegno ai disoccupati e alle famiglie a basso reddito, il partito di Conte ha presenziato durante la campagna elettorale soprattutto nell’Italia meridionale, area della penisola dove purtroppo vive una alta percentuale di persone cui le misure dei 5 Stelle si riferiscono. Una strategia per evidenti motivi diversa da quella del 2013 e del 2018 quando a prevalere era il radicamento dell’antipolitica, una strategia più matura si potrebbe dire, ma che dimentica il settentrione, convincibile solo attraverso le proposte sulla salute e sull’ambiente. Passando al Terzo Polo, e andando oltre il carattere quantomeno difficile di Carlo Calenda e Matteo Renzi che più volte li ha portati a scontrarsi negli anni passati e che è stato preda facile di sfottò, con il centro rinominato egocentro, lo slogan è stato “l’Italia sul serio”. Istruzione e sanità pubblica al primo posto, per risolvere quei danni compiuti dagli esecutivi italiani del nuovo millennio, Governo Renzi compreso. La grande novità della scheda elettorale si è affidata molto ai social, nel tentativo di convincere i giovani, alle prime armi con il voto, e ha preso a modello Mario Draghi, rilanciando alcune delle politiche previste come realizzabili da quest’ultimo nei mesi che avrebbero portato alla scadenza naturale della legislatura. Tuttavia, considerata l’indipendenza di Draghi, non è dato sapere se il suo voto sia andato proprio al Terzo Polo.

Per quanto riguarda il centrodestra, la coalizione composta da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati, simbolo sotto cui si sono presentati i partiti Noi con l’Italia, Italia al Centro e Coraggio Italia, è risultata l’unica davvero pronta al periodo pre-elettorale. Si è mostrata da subito compatta e con una certa affinità ideologica, tanto da rifarsi a un unico accordo quadro lasciando ai distinguo dei partiti una rilevanza marginale in qualunque comizio o comparsata televisiva. Seppur mai esplicitamente dettata all’interno dell’alleanza è stata evidente la leadership di Giorgia Meloni, il cui apprezzamento personale e del partito da lei rappresentato è stato in cima alla lista dei sondaggi per mesi. Il consenso di Meloni è dipeso molto dalla mancanza di uscite a vuoto nel corso della legislatura e dalla coerenza con cui il suo partito ha portato avanti una ferma opposizione, due virtù di cui non si può fare vanto la Lega di Salvini, anzi. É stata dunque la leader di Fratelli d’Italia a mettere la faccia nell’unico dibattito svoltosi prima delle elezioni, quello con Letta, e davanti alle televisioni estere, mentre Salvini, Berlusconi e Lupi, probabilmente consci del fatto che i rispettivi partiti non potessero competere per il primo posto nell’alleanza, sono parsi più elementi di supporto. Certi momenti di tensione tra i portabandiera ci sono stati, soprattutto a inizio campagna, ma è fattuale come alla fine sia emersa una definizione di ruoli, accettabile almeno finché non si è al Governo. Cavalli di battaglia: la flat tax, le politiche per la famiglia (quella cosiddetta naturale) e l’Europa, sì, ma degli Stati nazionali.

Giusto sottolineare come a queste elezioni abbiano raggiunto gli standard per presentarsi, nella speranza di superare la soglia di sbarramento, ulteriori partiti, che hanno svolto una campagna elettorale altrettanto dura e intensa. Tra i più sostenuti, c’era Unione Popolare, con tutta probabilità l’esperimento più convincente di partito alla sinistra della coalizione dem da più di un decennio, guidata dall’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, c’era Italia Sovrana e Popolare, includente il Partito Comunista di Marco Rizzo e Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, c’era Italexit di Gianluigi Paragone, il cui nome basta per indicare quale l’obiettivo e c’era Vita di Sara Cunial, partito no-vax, no-lockdown, no-green pass.

Come si è votato?

Due novità assolute in queste elezioni politiche italiane: il numero di parlamentari da eleggere, passato con il taglio avvenuto a giugno da 630 a 400 alla Camera e da 315 a 200 al Senato, e la possibilità per ogni cittadino e cittadina maggiorenne di votare per entrambe le aule, quando fino a ora il voto per il Senato era riservato ai maggiori di 25 anni. Non novità invece la legge elettorale, a prima firma Ettore Rosato e per questo denominata Rosatellum.

Un sistema misto maggioritario e proporzionale che, per conciliare i due aspetti necessari in una democrazia in cui convivono più di partiti, la rappresentatività e la governabilità, assegna un terzo dei seggi in Parlamento ai candidati rappresentanti la coalizione vincente in ogni circoscrizione, uno per circoscrizione, e i restanti due terzi ai candidati nei listini bloccati dei partiti, in proporzione alla percentuale di voti ottenuti su scala nazionale, con una soglia di sbarramento - quindi da raggiungere per occupare seggi in Parlamento - fissata al 3% dei consensi.

Costituzionalmente corretta, a differenza della precedente legge Calderoli e della mai applicata Italicum, non resta esente da critiche, a partire dall’impossibilità - accentuata dalla detta riduzione dei parlamentari - di una perfetta rappresentanza dei territori. Nel corso dell’ultima legislatura si è più volte proposta una modifica ma, per un motivo o l’altro, non è mai avvenuta. Chissà se in quella che sta per cominciare la si toccherà per davvero.

Qual è stato il risultato?

Come si immaginava, le urne hanno consegnato all’Italia la vittoria del centrodestra, che potrà contare sulla maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Fratelli d’Italia ha annientato la concorrenza, ricevendo quasi tanti voti quanto l’intera coalizione di centrosinistra, e se ha deluso le aspettative la Lega, fermatasi all’8,8% dei consensi, ha sorpreso Forza Italia che, a discapito dei sondaggi, ha ottenuto un 8.2% determinante per avere voce in capitolo nella nuova maggioranza.

Il Partito Democratico sarà prima forza di opposizione, con un 19% che sta però stretto a Letta, richiamato a gran forza dalla base dem per riprendersi dalla crisi iniziata con le scorse elezioni. Una grande delusione per il partito di centrosinistra che già sta prospettando un congresso nel quale analizzare la sconfitta ed eleggere un nuovo segretario. A fare compagnia al PD in Parlamento ci sarà l’alleanza tra Sinistra Italiana e Verdi, e solo limitatamente a tre seggi guadagnati al maggioritario +Europa e Impegno Civico, che non hanno superato la soglia di sbarramento, il primo, addirittura, per un pelo, lo 0.05%. Ulteriore beffa per i due partiti della coalizione esclusi, la mancata elezione nel maggioritario dei rispettivi leader, Emma Bonino e Luigi Di Maio.

Il Movimento 5 Stelle non solo sopravvive, ma facendosi forza dei voti ottenuti nell’Italia meridionale e insulare, si afferma con un 15.5% come seconda forza di opposizione. Di conseguenza, il Terzo Polo risulta, dati alla mano, il quarto. Pochi voti di distanza da Forza Italia e Lega, un ottimo risultato per un simbolo esordiente ma lontano da quanto si auguravano i segretari dei due partiti che lo compongono: la doppia cifra. Ad eccezione dei partiti rappresentanti le Regioni a statuto speciale e dei meridionalisti di Sud chiama Nord vincenti al maggioritario nella circoscrizione di Messina alla Camera e al Senato, nessun’altra forza ha superato la soglia di sbarramento.

Passando al lato triste, se non tragico, delle elezioni svoltesi il 25 settembre, queste hanno registrato la più bassa affluenza della storia repubblicana. Solo il 63.91% degli aventi diritto al voto ha espresso la propria preferenza, oltre il 9% in meno rispetto alle scorse elezioni. Secondo i dati raccolti da YouTrend, tra gli astenuti rientra un terzo degli elettori del Movimento 5 Stelle del 2018, quelli insomma che avevano visto nella novità dei mai stati al Governo l’ultima spiaggia per la politica italiana e che, a quattro anni di distanza, sono rimasti estremamente insoddisfatti dai risultati. Ma tra gli astenuti sono da contare coloro che non hanno potuto votare; tra gli italiani all’estero a cui il Ministero ha vergognosamente recapitato in ritardo o non ha proprio recapitato le schede elettorali, malgrado il completamento dell’iter per esprimere il voto, e i fuorisede per cui ancora manca una legge che li abiliti al voto nel proprio Comune di domicilio.

Cosa ci si può aspettare per e dall’Italia?

A meno di clamorosi colpi di scena nelle prossime due settimane, le consultazioni che svolgerà il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella individueranno in Giorgia Meloni la persona cui affidare le chiavi di Palazzo Chigi. Con lei, il Governo sarà composto dalle forze di centrodestra, maggioranza in Parlamento e, con tutta probabilità, il numero di Ministeri spettanti a ogni partito rispetterà proporzionalmente i voti presi. É quindi pronosticabile un esecutivo composto per più di metà da esponenti di Fratelli d’Italia e in egual parte da rappresentanti di Lega e Forza Italia, con una presenza sussidiaria di Noi Moderati.

Seppur non sia un mistero la presenza nel partito di maggioranza di soggetti fortemente euroscettici e di - dichiarati o meno - neofascisti, l’Italia non si trova né con un passo fuori dall’Unione europea, né di fronte a una possibile deriva autoritaria. Certo, di questo risultato non può gioire nessun europeista, né tantomeno federalista, considerata la vicinanza di Meloni ai più fermi oppositori del processo di revisione dei trattati europei e sostenitori del processo di decisione all’unanimità, ma, anche a causa della pandemia, è evidente come i sentimenti euroscettici stimolati dalla Brexit del 2016 siano praticamente scomparsi tra i partiti di centrodestra italiani. Resta il credo sovranista, che vede l’UE come una semplice facilitazione del rapporto tra gli Stati nazionali, per cui, all’interno del Consiglio europeo, non saranno stimolati grandi passi avanti nel processo di integrazione europea da parte dell’Italia. Per quanto riguarda il Next Generation EU, questo non è stato tema centrale della propaganda del centrodestra, sebbene avrebbe dovuto; l’Italia ha avuto il via libera alla seconda tranche di fondi ammontante a 21 miliardi di euro, in gioco ne rimangono 130, ricevibili quasi di certo se continueranno a essere rispettati i valori fondanti dell’Unione e se non saranno apportati drastici cambiamenti al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non si può fare altro che aspettare, osservare e incrociare le dita.

Per quanto riguarda la politica interna, obiettivo della coalizione di maggioranza è quello di fissare una flat tax al 20%. Un compito non facile, ma in cui tutte le forze credono, malgrado tale manovra, oltre agli economisti, non convinca appieno nemmeno i loro elettori. Sulle migrazioni, rimarranno i decreti sicurezza, redatti da Salvini quando svolgeva l’incarico di Ministro dell’Interno durante il primo Governo Conte, le frontiere saranno sempre più controllate e gli sbarchi sempre più bloccati, preoccupa - sul tema ma anche fuori - l’escalation della police brutality, pratica stravista nei Paesi europei praticanti il respingimento dei migranti e sulla quale, soprattutto, la destra italiana ha sempre la tendenza a chiudere più di un’occhio. La questione clima e ambiente sarà con ogni probabilità quella per cui il Parlamento lavorerà più coeso, data la affinità di vedute su più proposte, quali il sostegno alle politiche di price-cap del gas a livello europeo, l’educazione ambientale e la transizione energetica sostenibile. La Lega in primis, con l’appoggio degli alleati, spinge da tempo sul ricorso all’energia nucleare. Se si pianificherà, tale politica potrebbe ricevere l’endorsement del Terzo Polo ma avrebbe contro i referendum del 1986 e del 2011 in cui gli italiani non approvarono le centrali. Ulteriore tema è quello delle riforme costituzionali, Fratelli d’Italia ne ha parlato un po’ inverosimilmente - e quasi certamenti a mero fine propagandistico - prospettando una superiorità della legge nazionale su quella comunitaria, un po’ convintamente, lanciando l’idea del passaggio dell’Italia da Repubblica parlamentare a Repubblica semipresidenziale. Sta di fatto che il giorno dopo le elezioni, Francesco Lollobrigida, Capogruppo alla Camera del partito di Meloni nella scorsa legislatura, abbia dichiarato come la Costituzione italiana sia bella ma con settant’anni di età. Nulla di certo quindi, ma da attenzionare.

Infine, tiene ovviamente banco la questione dei diritti. Non poteva altrimenti con la vittoria di un partito fiero espositore della neofascista fiamma tricolore nel logo. Meloni non si è mai sottratta alle domande in merito. Come ci si può aspettare, non intende fare più di quanto sia già previsto per la comunità LGBTQ+. Si schiera contro il matrimonio egualitario e l’adozione per coppie non eterosessuali, tuttavia, contrariamente al suo alleato ungherese Orbán, nemmeno intende negare a chi non si riconosca in quella che a destra viene indicata come famiglia tradizionale i diritti fino a qui conquistati; durante un comizio a Cagliari a inizio settembre, è salito sul palco dove Meloni stava parlando un attivista con una bandiera arcobaleno per chiedere cosa la leader di Fratelli d’Italia intendesse fare per i diritti della detta comunità. Si è dovuto accontentare (tra mille virgolette) di un mantenimento delle unioni civili, accompagnato da un intellettualmente onesto ma praticamente ipocrita “siamo tutti uguali”, parole che difficilmente uscirebbero dalla bocca di qualunque esponente di Fidesz. Stesso discorso vale per la legge sull’aborto. Meloni è famosa per l’orgoglio con cui si presenta come donna, madre e cristiana, in quest’ordine. Ed effettivamente, una donna che dai quartieri periferici di Roma si fa strada in un partito machista fino a diventarne leader e a portarlo a vincere le elezioni, ipotecando il posto da primo Presidente del Consiglio di sesso femminile della storia italiana, è giusto che se ne faccia vanto, potendo essere di ispirazione a ragazze che sognano la stessa carriera. Non per questo però applicherà politiche cosiddette femministe. Non intende abolire il diritto all’aborto, non intende toccare la famosa legge 194, ma non intende nemmeno intervenire dove questo diritto non è pienamente rispettato per la mancanza di cliniche adibite e per la grande presenza di medici obiettori.

Per ora, insomma, solo gran fastidio per i progressisti e per le menti più aperte, ma nulla da temere. Ha vinto Giorgia Meloni, ha vinto Fratelli d’Italia, ha vinto l’intera coalizione di centrodestra che conservatrice si dichiara e conservatrice è. Per evitare che non sfoci in un qualcosa di più - grave per l’Europa, per i diritti, per l’eguaglianza, per la pace - dovrà essere il popolo italiano a non abusare dell’esecutivo e del termine con cui questo definisce la propria ideologia.

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