Luciano Bolis: l’umiltà di un eroe

, di Giulio Saputo

Luciano Bolis: l'umiltà di un eroe

Continuiamo la nostra opera di ricordo di alcune grandi personalità, spesso dimenticate, che hanno segnato la storia della Resistenza, dell’Italia e dell’Europa nella grande battaglia per l’unificazione del continente. Oggi vorremo parlarvi di Luciano Bolis, instancabile organizzatore dell’attività federalista e partigiano medaglia al valore.

Chi era Luciano Bolis?

Luciano Bolis nasce a Milano nel 1918, terzogenito di una famiglia della media borghesia milanese che accetta piuttosto convintamente il fascismo. Diviene studente di lettere dell’Università di Pavia e di violino all’Istituto musicale Vittadini, qui Bolis incontra per la prima volta le idee antifasciste e decide di abbracciarle. Inizia poi l’attività di propaganda contro il regime che lo porta, nel 1942, alla condanna a due anni di carcere. Rilasciato, sceglie la via dell’esilio in Svizzera, dove si dedica all’attività del Partito d’azione e, conoscendo Ernesto Rossi, alla battaglia federalista. Rientrato in Italia nell’ottobre del ’44, viene inviato da Parri e Valiani in Liguria a riorganizzare l’azione partigiana. Qui lavora come segretario regionale del Partito d’Azione e ispettore delle Brigate di «Giustizia e Libertà» sia in città, sia mantenendosi in contatto con le formazioni allocate sulla montagna. Il 6 febbraio 1945 viene arrestato a Genova e riconosciuto come il partigiano “Fabio”. Sottoposto a giorni interi di atroci torture, pur di non compromettere i propri compagni, decide di sacrificare la propria vita e di tentare il suicidio. Viene trasportato morente in ospedale, da dove viene liberato il 18 aprile 1945, grazie al contatto coi partigiani dell’allora infermiera Ines Minuz, che sarebbe poi diventata sua moglie dopo la Liberazione. Dopo un anno passato a riprendersi dalle ferite, tornerà alla politica attiva nel febbraio 1946 con la carica di vicesegretario nazionale del PdA. Una volta a Genova, prende l’incarico di Segretario provinciale e regionale del PdA, Direttore dell’Ufficio stralcio del Comitato di liberazione nazionale ligure. Bolis è tra i fondatori dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza, divenendone il direttore sino al giugno 1953. Dopo lo scioglimento del PdA, continua il suo impegno politico coi socialisti “eretici” non nenniani, ma si concentrerà soprattutto sul federalismo. Nel 1948 Bolis è eletto con Spinelli segretario del Movimento Federalista Europeo e, dopo una breve parentesi Ligure, sarà rieletto nel 1953 segretario nazionale aggiunto ed obbligato a trasferirsi a Roma come vice di Spinelli. Fallito il tentativo federalista con la CED, sarà il faro organizzativo dell’azione del Congresso del Popolo Europeo. Corrispondente RAI da Parigi e nominato Alto funzionario presso il Consiglio d’Europa, continua a far parte degli organi dirigenti del MFE sovranazionale e, poi, di quelli dell’Unione europea dei federalisti (è anche nominato Presidente onorario del MFE alsaziano). Nel 1978, una volta in pensione, riprende l’azione a favore della federazione europea attraverso le Case d’Europa e, nel 1981, costituisce la Federazione italiana delle Case d’Europa. Nel 1980 Bolis viene eletto Vicepresidente MFE, carica che ricoprirà sino alla scomparsa ed è inoltre tra i dirigenti delle più importanti associazioni europeiste e federaliste. Nel 1983, in accordo con la moglie, dà vita alla Fondazione, cui gli amici vollero giustamente dare il suo nome. Per dare un valore aggiunto a questa breve biografia, condividiamo di seguito le emozionanti conclusioni del lavoro di ricerca portato avanti da Cinzia Rognoni Vercelli:

«Per Bolis la milizia politica era, innanzitutto, missione educatrice. Piuttosto che il»gioco«politico, egli prediligeva, proprio per la sua vocazione mazziniana, il lavoro pedagogico. Come per Mazzini, l’educazione aveva per Bolis una valenza etico-politica che andava al di là dell’apprendimento e atteneva alla formazione spirituale. Egli sapeva che nella formazione delle nuove generazioni si gioca la sorte delle società umane.»I giovani rappresentano, per definizione, l’avvenire - scriveva -. Chi si preoccupa dell’avvenire deve quindi occuparsi in primo luogo dei giovani«. Bolis amava i giovani, che ha sempre cercato di entusiasmare, e i giovani amavano lui. Nonostante la severità dei suoi principi morali, che non ammettevano compromessi di alcun genere a vantaggio del suo»particulare«e ben poco spazio lasciavano al riposo e agli svaghi, Bolis era allegro. Quell’allegria e quel sorriso che erano le sue caratteristiche essenziali, insieme alla semplicità dei modi, a quella sua capacità di non vivere di ricordi, ma di essere sempre proiettato nel futuro che del resto rendeva lui stesso»un giovane«, a quella vena inconfutabile di idealismo squisitamente romantico affascinavano gli studenti che, a ogni occasione, in qualunque città d’Europa, accorrevano numerosi ad ascoltarlo. Bolis era un mazziniano perché, come ci ricorda Arturo Colombo, era convinto che la vita fosse»un affare troppo serio per non spenderla con la massima intransigenza morale e al tempo stesso con quella costante, coerente, serietà intellettuale che ha caratterizzato la sua attività«. Il suo eroismo non è stato tanto la terribile»prima mossa«, quanto proprio la»coerenza«con la quale quotidianamente», senza alcun compromesso e sino in fondo, ha saputo restar fedele ai propri convincimenti e conservare una perfetta corrispondenza tra pensiero e azione, testimoniando quei valori nei quali credeva e per i quali era stato disposto anche a compiere il sacrificio più alto. Ha ragione Guido Bersellini nel sottolineare come il messaggio di Bolis si possa racchiudere in due parole: Libertà e Dovere. In Bolis troviamo quella stessa concezione mazziniana della politica come religione laica che riceve il suo significato profondo dall’idea di una società umana che elimini alla radice il ricorso alla violenza, avvicinandosi così a quel modello che Kant auspicava e descriveva come «pace perpetua» e che Mazzini esprimeva, invece, in termini più morali che filosofici nella classica contrapposizione tra «diritti e doveri». Manca, a mio giudizio, nella riflessione di Bersellini un terzo termine per definire appieno il messaggio di Bolis. Se la Libertà era l’obiettivo, il Dovere l’impegno per arrivare all’obiettivo, l’Europa ne era il mezzo. Per Bolis, infatti, «la democrazia, la libertà, la difesa dei diritti dell’uomo devono potersi esprimere congiuntamente a livello europeo, oppure sono condannati a morire». Sconfitto il nazifascismo, questo avventuroso personaggio - di stampo, nella psicologia e anche nell’aspetto, così risorgimentale - ha cercato sbocchi nelle idealità più alte e impegnative che la storia, superati i patriottismi nazionalistici, ha proposto ai migliori nel secondo dopoguerra: la costruzione di un’Europa federale. Sino alla morte, che accolse sereno e quasi lieto dopo che gli venne annunciato che le sue ceneri sarebbero state collocate nel cimitero di Ventotene accanto a quelle di Spinelli, a questa lotta ha dedicato tutte le sue migliori energie, rinunciando a svolgere un ruolo nella politica nazionale, lui che aveva un curriculum di autentico eroe della Resistenza e che avrebbe potuto benissimo utilizzarlo per vivere, come si suol dire, di rendita. E, pur avendo dato un contributo essenziale di pensiero e azione a questa lotta, non ha mai sentito il bisogno di attribuirsene il merito. Il dovere basta all’azione anche quando si è costretti ad aggiungere alla realtà sorda e ottusa solo il proprio «granello di sabbia». Il 20 febbraio 1992 Bolis si spegneva a Roma, nella sua casa, al termine di un ultimo e impari combattimento con quello che si è soliti definire «male incurabile». Chi, come me, era presente per portargli l’estremo saluto nella sede del Movimento europeo, in un pomeriggio di sole e tepore romano, pur nel profondo vuoto per la perdita di un indimenticabile amico e di un fulgido esempio di vita in questa buia stagione del mondo, non poteva non essere invaso da un senso di pace che la sobrietà del luogo e la semplicità di quell’ultimo incontro emanavano. Non parole roboanti, non addobbi funebri. Solo un gruppo di amici che a uno a uno gli esprimevano per l’ultima volta il loro affetto e la loro stima. Un mazzo di rose, dono della moglie e della figlia, e sulla bara due bandiere a testimoniare l’impegno di una vita: la bandiera di Giustizia e Libertà e quella del Movimento Federalista Europeo. Se ne andava senza far rumore, in sintonia col tono della sua voce, bassa e roca, che chi l’ha conosciuto ben ricorda, conseguenza della lesione permanente alle corde vocali. Così era stata del resto tutta la sua vita. Non aveva mai calcato la grande scena politica, né tanto meno aveva mai fatto parte, colpa dell’intrigantismo della classe politica, di quel Parlamento europeo per il quale nessuno più di lui vantava titoli e al quale avrebbe aggiunto prestigio."

Lasciamo ora la parola allo stesso Bolis, per la sua “Intervista sull’antifascismo”. Un grido di lotta contro tutti coloro che vorrebbero recludere la lotta della Resistenza in un passato remoto e cristallizzato, mentre attraverso l’idea federalista quella stessa battaglia mantiene un valore intatto, un significato profondamente attuale e rivoluzionario. Come scriveva infatti Luciano Bolis: «Spinelli è la Resistenza così come continuerà ad esserlo il federalismo». Tutto il resto non è che flatus vocis:

“(...) il federalismo è particolarmente indicato, proprio perché non ci porta a difendere situazioni del passato; gli ideali della Resistenza certamente restano, ma esso è disposto a spazzare via tutto il resto che va spazzato via. Non vogliamo fare della storia un museo: abbiamo delle cose da difendere che difenderemo, ma abbiamo anche delle cose del passato nei confronti delle quali - una volta di più l’esempio di Salvemini insegna - una severa critica va esercitata. Direi che questo appello ognuno lo dovrebbe rivolgere prima di tutto a se stesso nel momento in cui forse è in gioco tutta la formazione della futura generazione; perché dipende dal risultato di questa partita che l’insegnamento, i libri di testo, la stessa formazione degli insegnanti, possano assumere un indirizzo piuttosto che un altro. Evitando quindi di sedersi nel mezzo senza prendere posizione, adottando un atteggiamento di ignavia, di inerzia, di panciafichismo che non contribuirebbe certo ad affermare valori che meritano di essere affermati positivamente, sottolineando invece la continuità del filone che dall’antifascismo va alla Resistenza e dalla Resistenza al federalismo ed alla costruzione della democrazia di domani (…) è colpa nostra se oggi ci troviamo di fronte a una gioventù assolutamente impreparata a valutare in termini storici il fenomeno della Resistenza e del post-fascismo. La responsabilità è degli stessi antifascisti, per non essersi sufficientemente preoccupati di questo aspetto della loro missione - senza parlare delle responsabilità di coloro che ora si apprestano a sfruttare questa diffusa ignoranza falsando in modo così assurdo la storia, nei confronti dei quali non possiamo che nutrire il più profondo disprezzo - (…)."

Infine, per l’occasione, pubblichiamo integralmente l’intervento di Lucia Bolis al Seminario europeo di Ventotene, dello scorso 5 settembre, per i 100 anni dalla nascita del padre.

Che commozione, trovarsi in questa piazza, su questa meravigliosa isola, piazza dove si riunivano i confinati politici, ai tempi del fascismo. Si provano sentimenti contrastanti: persone che qui hanno vissuto, fra gli stenti, le privazioni, i divieti, prive di libertà e di qualsiasi autonomia, persone che qui hanno sofferto e sopportato soprusi. Luoghi per loro natura così belli, luoghi dove lo stesso Altiero Spinelli tornò, commosso e nostalgico. Qui conobbe altri antifascisti, che condivisero con lui la vita, qui conobbe Ursula Hirschmann, sua futura compagna e moglie.

Fa riflettere la questione del rimpianto, della nostalgia, per dei luoghi dove si ha tanto sofferto e che si rivedono, successivamente, ogni volta con grande commozione. Per di più, si tratta di una cornice naturale incantevole, una gemma incastonata in un mare che ti attornia e ti accoglie, almeno così la vediamo noi, quando vi ci rechiamo d’estate.

Qui Altiero volle che le sue ceneri fossero disperse, nel mare antistante Ventotene, ma gli isolani le serbarono, in gran parte, e le deposero nel cimitero dell’isola, prospiciente il mare. Mio padre, più giovane di Spinelli, fedele discepolo e sostenitore, devoto per anni ad Altiero, nel campo delle loro attività politiche, non fu confinato, bensì incarcerato in più città italiane, durante l’era fascista, nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Qui venne per commemorare Spinelli, e i suoi compagni, e per partecipare a praticamente tutti i successivi seminari europei federalisti che vi si svolsero.

Nato a Milano nel 1918 - quest’anno avrebbe raggiunto l’età di cent’anni - vissuto in varie città italiane ed europee, morì a Roma nel 1993 e volle che le sue ceneri fossero qui tumulate, accanto a Spinelli, cosa che gli fu concessa dagli isolani e dalle autorità locali, «in primis» il sindaco «storico» di Ventotene, Beniamino Verde.

Se facciamo attenzione alle date, possiamo dire che fu un quarto di secolo fa, 25 anni esatti, che mi recai per la prima volta personalmente a Ventotene, per portarvi l’urna con racchiuse le ceneri di mio padre, alla presenza di mia madre e di cari amici.

Concernente Luciano Bolis, vorrei in particolare ricordare il periodo che precedette di poco la Liberazione dell’Italia dal fascismo, e cioè un po’ prima del 25 aprile del ‘45, quando fu arrestato dai nazifascisti e torturato per giorni, a Genova, ove aveva responsabilità organizzative presso il Comitato ligure di Giustizia e Libertà. I suoi torturatori non riuscirono a estorcergli nessuna informazione, nessun nome dei compagni di lotta. Egli subì stoicamente orrendi atti di tortura, effettuati allo scopo di farlo parlare, di annichilire ogni sua volontà, ma non cedette alle violenze, riuscendo miracolosamente e a lungo, a scindere, con la sua mente volitiva, il nesso, il legame - su cui contavano i suoi aguzzini per farlo parlare - tra quanto gli veniva inferto e la possibilità di far cessare le sue sofferenze, di porre un termine a questa situazione da «incubo», purtroppo reale.

In questa situazione disperata, nonostante le sue carni martoriate, con il corpo tutto dolente e la mente stravolta, - era ormai in fin di vita -, senza mai rivelare alcun nome e tradire i compagni, per non parlare, anzi, per esser «definitivamente» sicuro di non parlare, ormai totalmente privo di forze, giunto allo stremo, con una lametta da barba, cucita nel risvolto dei pantaloni (come altri vi avevano cucito una pillola di cianuro, nel qual caso: morte assicurata!) Luciano si tagliò i polsi, per suicidarsi, ma la fuoruscita di sangue non fu sufficiente. Si coagulò, dato il freddo gelido della sua cella. Allora mio padre, con un ultimo sprazzo di coscienza, i suoi polsi dolenti, con le poche forze rimastegli, in un ultimo sussulto di volontà, aiutandosi con le mani dai polsi feriti, si accanì sulla propria gola, per togliersi la vita. Sempre con la lametta, praticò un’apertura, inserendo le sue dita nelle proprie carni, nell’intento di tagliare le carotidi e, così, di morire. Per sua fortuna, in un certo senso, riuscì solo a ferirsi accanendosi sulle proprie corde vocali, e questo gli salvò la vita.

Quando venne ritrovato in cella, in una pozza di sangue, fu deciso di trasferirlo in ospedale, per vedere se non ci fosse modo di salvarlo, provvisoriamente, per continuare l’orrenda opera distruttiva, in un ultimo tentativo di ottenere da lui preziose informazioni. Forse era considerato in quanto prigioniero potenzialmente importante, che avrebbe potuto ancora rivelare segreti utili al nemico.

Degente, fu piantonato giorno e notte, ma finalmente salvato, dai suoi medici, nonché dalla mia futura madre, colà infermiera, la quale era riuscita a creare un contatto con l’esterno, con «gli amici» che lo salvarono, traendolo dalla sua prigionia ospedaliera, con una finta ambulanza e finti medici, o finti infermieri, col camice bianco, che vennero a prelevarlo e riuscirono a porlo in salvo, con un colpo di mano che non fece nessuna vittima, e a nasconderlo in un rifugio di fortuna, un locale in una casa diroccata dai bombardamenti, nel centro città.

Pochi giorni dopo, se fosse rimasto in carcere o anche se trasportato all’ospedale, sarebbe comunque morto, - ucciso dalle belve fasciste che già si erano accanite su di lui -, al momento del fuggi fuggi generale, perché era ormai giunto l’agognato momento della Liberazione.

Qualche anno dopo sposò Ines, l’infermiera in otorinolaringoiatria, donna veneta coraggiosa e tenace, dal carattere affabile e dai modi cortesi, sempre servizievole e sempre pronta ad assecondarlo, ad appoggiarlo, a incoraggiarlo; fu una coppia cui, di primo acchito, non ci si sarebbe aspettati, ma la cui complicità e il cui affiatamento durò per tutta la vita.

Vedi Luciano Bolis, Il mio granello di sabbia, Einaudi, Torino, 1995; Cinzia Rognoni Vercelli, Luciano Bolis. Dall’Italia all’Europa, il Mulino, Bologna 2006 e ringraziamo il Direttore dell’Istituto Spinelli, Federico Brunelli, per averci reso disponibile il contributo di Lucia Bolis.

Fonte immagine: Tratta da «Luciano Bolis. Dall’Italia all’Europa». Sono raffigurati Altiero Spinelli e Luciano Bolis durante una riunione (1950).

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