A metà settimana dopo il forte segnale lanciato da Michele Serra con l’iniziativa “Una Piazza per l’Europa”, il Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni ha letto alla Camera dei Deputati alcuni pezzi “selezionati” dal Manifesto di Ventotene, dichiarando alla fine “Non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia.”
Solo con queste parole non sarebbe una sorpresa, vista la “matrice” politica della Leader di Fratelli d’Italia. Tuttavia, questa signora ricopre, dall’autunno 2022, anche una delle più alte cariche della Repubblica Italiana. E la cosa peggiore, oltre alle citazioni (non contestualizzate) dello stesso Manifesto, è che ha detto le seguenti parole:
“Io spero che tutte queste persone [che hanno manifestato sabato 15 marzo a Roma] non l’abbiano mai letto il Manifesto di Ventotene perché l’alternativa sarebbe francamente spaventosa, però [...] io sono contenta di, diciamo così, citare testualmente alcuni passi salienti del Manifesto di Ventotene.”
Nota: ognuno di questi passi sarà commentato con il vero significato di quelle parole.
“La Rivoluzione europea per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista"
A quei tempi i termini “socialista” [1] e “comunista” erano considerati dei sinonimi, nonostante la rottura dei partiti marxisti dopo la Prima Guerra Mondiale.
Ma nel caso dei principali autori del Manifesto, questi erano degli intellettuali - politicamente attivi - provenienti da percorsi diversi:
Altiero Spinelli era un militante del Partito Comunista d’Italia (diverso dal PCI del dopoguerra, in particolare con Enrico Berlinguer). Ma durante la sua prigionia, venuto a sapere del degenero staliniano, si allontanò dalla linea del partito, per poi essere espulso alla fine degli anni ‘30.
Ernesto Rossi, liberista “puro” agli inizi, nemico dichiarato dei monopoli, sviluppò un’idea di economia che combina libero mercato con l’intervento pubblico riassunto nella curiosa espressione “pianificare la libertà” [2]. Inoltre Rossi ha collaborato con i Fratelli Carlo e Nello Rosselli, fondatori del movimento “Giustizia e Libertà” (GL) che promosse un “socialismo liberale”, lontano da quello marxista. Lo stesso Rossi ricevette gli scritti dei federalisti grazie alla corrispondenza con uno dei suoi maestri Luigi Einaudi.
Eugenio Colorni - la cui figlia Renata è intervenuta alla Piazza per l’Europa - che non scrisse direttamente il Manifesto, ma ne curò la prefazione, inizialmente era vicino ai GL, ma poi dopo che “l’organizzazione è stata falcidiata dagli arresti, decide di avvicinarsi al Centro Socialista Interno” (Tedesco, 2024, pag. 203 [3]) le “sezioni” del Partito Socialista Italiano, diviso tra i massimalisti-marxisti e gli autonomisti, tra i quali si collocava lo stesso Colorni. “Del socialismo Eugenio aveva una concezione tutta sua, insieme rivoluzionaria e carica di aspirazioni innovative”. [4]
Tornando al termine “socialista”, il suo significato nel Manifesto è da intendere sul piano intellettuale, ideale e - perché no? - anche morale, non in senso di regime come quello staliniano.
“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita.”
Lo spirito della citazione potrebbe essere accostato - con le dovute attenzioni - al termine “Repubblica” all’Art. 3, comma 2 della Costituzione Italiana: in questa disposizione, la Repubblica è intesa in senso molto ampio di comunità (individui, gruppi, enti) e non in senso strettamente giuridico-istituzionale.
“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.”
Il passaggio non avrebbe bisogno di chiarimenti: il Socialismo (delle origini) e il Comunismo, dal 1800, avevano come punto cardine l’abolizione della proprietà privata. Nel Manifesto di Ventotene invece, come indicato nella citazione, prevede un approccio logico e ragionevole, cercando di conciliare un diritto individuale con le esigenze del bene collettivo. Non è molto diverso dal terzo comma dell’Art.42 della Costituzione Italiana.
“Nelle epoche rivoluzionarie in cui le istituzioni non debbono essere già amministrate ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente.” [...] “Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un tumultuare di passioni” [...] “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria"
Queste tre citazioni si trovano nel “sottocapitolo” La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti, sotto la seconda parte del Manifesto II. Compiti del dopoguerra. L’Unità Europea. E sono queste tre citazioni che meritano di essere contestualizzate.
Questo “sottocapitolo”, inizia dicendo: “La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente [- "sentimentalmente!” -] per interi popoli l’avvento della «libertà» [...]. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse [...] [c]redono nella «generazione spontanea» degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. [...] Auspicano la fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi. Se il popolo è immaturo, se ne darà una cattiva; ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.”
Le tre citazioni enunciate dal Presidente del Consiglio a Montecitorio si collocano in questo macro-passaggio: I democratici [...] sono [...] dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente.
La pietosa impotenza dei democratici nella rivoluzione russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, colle sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianze di vecchia legalità, o disprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Con i suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta fra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che il loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli [...].
La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria. Man mano che i democratici logoravano nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
In altre parole, è un po’ come se le forze democratiche fossero vissute e avessero operato come se la democrazia fosse già consolidata con le sue regole e procedure. Le stesse sfruttate dai fascisti e dai nazisti per conquistare il potere rispettivamente in Italia nel 1922 e in Germania nel 1933.
Contrariamente a quello che pensavano (e forse pensano tuttora) le “tendenze democratiche”, la democrazia e i valori a essa collegata non sono spontanee, né scontate, né solide. A quei tempi inoltre non c’erano ancora gli ordinamenti con garanzie costituzionali. Questo “peggior regime, tolti tutti gli altri”, benché inventato nell’Antica Grecia, attraverso un percorso molto tortuoso, si è fatto proprie (non senza difficoltà o resistenze) delle “componenti” come la divisione dei poteri, i diritti e i corpi intermedi.
Inoltre Spinelli, Rossi e Colorni bocciano la soluzione comunista e criticano la lotta di classe, la quale se ha dato “consistenza” all’azione politica delle classi operaie (portata avanti dagli intellettuali e dai dirigenti di partito di ispirazione marxista), quando si tratta della “necessità di trasformare l’intera organizzazione della società” esclude però gruppi e movimenti provenienti da altre classi (con le loro esigenze e interessi): “il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa fra classi e categorie economiche. Con la maggiore probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto.”
Questa crisi rivoluzionaria non è auspicata per creare la nuova Europa, bensì è un’analisi “neutrale” di cosa succede in questi periodi: c’è un regime - il più delle volte autoritario - più impegnato a mantenere il potere che a fronteggiare in modo deciso e sistematico i bisogni della società, nella quale si diffonde un malcontento. Alcuni gruppi (inizialmente uniti) colgono la palla al balzo e guidano le masse e - se ben organizzate - riescono a prendere il potere. A questo punto la prassi democratica non solo “fallisce clamorosamente”, ma non trova spazio (se non, apparentemente, agli inizi) e tantomeno un suo consolidamento: si pensi alla Rivoluzione Francese (non solo il Terrore giacobino), a quella Russa e alle Primavere Arabe, tra regimi fondamentalisti o militari e stati falliti.
Va sempre ricordato che il Manifesto per un’Europa Libera e Unita è stato scritto e diffuso nel 1941, quando l’Italia era sotto una dittatura fascista dal 1922 ed era in corso la Seconda Guerra Mondiale: dopo un ventennio di regime “quasi-totalitario” di leggi fascistissime, violenza squadrista e controllo totale della società da parte del Partito Nazionale Fascista, difficilmente ci sarebbe stato difficile avere un consenso “democratico” spontaneo.
Il Manifesto non propone di gettare via la democrazia, bensì propone il più ampio coinvolgimento possibile di soggetti, anche di diverse tendenze politiche, al fine di creare un nuovo spazio politico che vada oltre quello dello stato-nazione che si sarebbe sviluppato di lì a poco nei paesi europei.
“Esso, il partito rivoluzionario attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Da’ in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e attorno a esso la nuova democrazia”.
Non si può negare che queste parole siano nel Manifesto. Potrebbero anche mostrare una versione “militante” della “deformazione professionale”, soprattutto da parte di Spinelli. Ora, sul “partito rivoluzionario”, questa è stata un’opzione contemplata per l’azione federalista: lo stesso Spinelli nella sua autobiografia [5], scrisse, dopo la fondazione del Movimento Federalista Europeo a Milano nel 1943, di aver rielaborato insieme a Rossi il capitolo riguardante il “Partito giacobino”:
“Riconoscevamo la rozzezza della nostra formulazione, e non potevamo impegnare il convegno in una difficile meditazione teorica su questo tema.” (Spinelli, 1984)
Ancora: “Lasciammo cadere definitivamente l’idea ventotenese di un partito federalista, comprendendo che metterlo su [...] sarebbe stato con ogni probabilità sterile e ci avrebbe comunque impedito di raccogliere in un sol fascio tutti i consensi certamente esistenti in ogni forza politica. La necessità di entrare in concorrenza con gli altri partiti ci avrebbe obbligato a darci un programma completo di gestione del potere nazionale, e ci avrebbe perciò inevitabilmente distratti dalla concentrazione che volevamo prioritari sul tema della costruzione europea. [...] sarebbe stata una inutile copia del partito d’azione e non lo strumento di azione che noi volevamo.” (Idem) E questo è stato ribadito anche nella prefazione allo stesso Manifesto, curata da Eugenio Colorni.
Per concludere, per capire l’obiettivo federalista, non basta leggere il “Per un Europa Libera e Unita - Progetto di un Manifesto”: ci sono molti scritti che correggono come l’autobiografia di Spinelli, aggiornano come il Manifesto dei Federalisti Europei del 1957 (qui ci sono alcuni capitoli, chiariscono e approfondiscono anche con altre prospettive, come le opere di Mario Albertini.
Il Manifesto per un’Europa Libera ed Unità, molto citato negli ultimi anni (talvolta osannato, talvolta denigrato), viene considerato in modo inappropriato uno dei documenti fondativi dell’Unione Europea, che, in realtà, è molto diversa dalla proposta federale per la quale si batte da più di 80 anni il Movimento Federalista Europeo. Non è la prima volta che questo documento viene travisato, ma che comunque si è fatto strada e i frutti si vedono dalle reazioni (tramite articoli e video su Youtube) alla lettura di una persona che ricopre uno dei più importanti incarichi politico-istituzionali di un paese fondatore dell’Unione Europea come l’Italia (anzi, la Repubblica Italiana). Un atto di per sé grave!
Una forza politica come quella attualmente al governo non può farsi paladina della Democrazia, essendo erede dello stesso regime che ha represso molti avversari politici, compresi i confinati in un’isola lontana, riuniti poi nel gruppo federalista e nella Mensa “E”. Tantomeno questo partito non può definirsi “sovranista” se poi hanno come riferimento un Capo di Stato di un altro Paese che (in teoria) sarebbe indipendente e sovrano. Un Presidente che umilia un altro alla guida di un paese aggredito da un autocrate, che non accetta le regole del gioco democratico (se non a pro suo) e che è affiancato da un personaggio, che tra viaggi su Marte e auto elettriche, crede di poter comandare il Mondo (e lo potrebbe fare, se non lo si ferma). Non sappiamo se questo è il loro mondo, ma certamente non è il nostro (e non solo per i Federalisti).
Anche “se la via da percorrere non è facile né sicura (anzi, pare molto peggio), deve essere percorsa e lo sarà.” Riprendiamoci la democrazia, l’Europa e il Mondo.
Ps: un pensiero e un ringraziamento va all’On. Federico Fornaro, a Roberto Benigni e a Michele Ballerin che ha collaborato con l’attore toscano per aver contribuito allo spettacolo.
Un ringraziamento a Edoardo Pecene per la supervisione di questo articolo.
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