L’Unione deve affrontare i fenomeni migratori. Come? Come si è mossa e cosa si sta muovendo ora?

Migrazioni, a che punto è l’Unione

, di Ludovica Smargiassi

Migrazioni, a che punto è l'Unione
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Quello delle migrazioni rappresenta un tema caldo per l’Unione Europea, che di fronte ad un fenomeno così complesso ha rivelato problematiche a livello politico, istituzionale ed umanitario. Gli Stati Membri hanno spesso prediletto la rivendicazione di egoismi nazionali alla realizzazione di un necessario clima di fiducia e solidarietà collettiva. Ma un’Europa unita non deve fermare le migrazioni. Deve gestirle.

L’immigrazione non è un fenomeno nuovo. Facciamo un passo indietro. Quando l’Unione Europea nacque nel 1992 si trovò ad affrontare la grave crisi nei territori della ex-Jugoslavia. I conflitti in Bosnia e in Kosovo misero a dura prova i successi nell’ambito dell’integrazione. Barriere legali e fisiche furono introdotte per frenare l’ondata di richiedenti asilo in fuga dalla guerra. Successivamente, nel 2015, più di un milione di persone hanno varcato i confini dell’Unione. Una sfida che ne metteva in discussione la cooperazione politica interna. L’incapacità nel dare una risposta europea comune alla crisi dei rifugiati ha messo in luce il bisogno di rivedere la struttura istituzionale e il processo decisionale dell’Unione Europea.

Oggi sono in atto numerosi cambiamenti in diversi contesti politici: dai disordini dopo il colpo di stato in Mali alla guerra nella regione del Tigray, dai lunghi conflitti in Libia e Siria alla presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan, fino agli scontri politici nei Caraibi e alla crisi in Venezuela. Gli sviluppi del contesto geopolitico attuale mostrano possibili conseguenze sugli spostamenti di popolazione e sulle rotte migratorie verso l’Unione Europea. Questo quadro instabile chiede necessariamente un nuovo approccio verso l’immigrazione.

Eppure, ancora oggi, spesso le risposte al fenomeno migratorio riguardano un sistema di esternalizzazione: un trasferimento verso l’esterno di costi e rischi dovuti all’arrivo dei rifugiati, un’esclusione spaziale delle possibili problematiche al di fuori delle frontiere esterne all’Unione. Ancora oggi, spesso la tendenza politica generale si rivolge alla connotazione del fenomeno migratorio come una minaccia alla sicurezza.

L’ultimo passo significativo sulla questione migratoria è stato il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione Europea il 23 settembre 2020. Cinque proposte legislative per riformare le norme dell’UE in materia di asilo. Tra i suoi elementi principali, prevede il meccanismo di solidarietà, strumenti per migliorare il rimpatrio, integrazione e canali legali di entrata in Europa. Non mancano poi i progetti. Come ITflows, finanziato dall’Unione Europea. Il progetto mira a realizzare lo strumento EU MigraTool, un modello di previsione dei flussi migratori volto a facilitare l’accoglienza e l’integrazione dei migranti e a coordinare il lavoro di attori coinvolti direttamente nella gestione del fenomeno migratorio.

Ma i progressi su questi punti spesso faticano a realizzarsi. Il divario tra i paesi europei sul tema delle migrazioni è ancora ampio. Lo dimostra l’atteggiamento di alcuni paesi (Danimarca, Grecia Austria, Polonia, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Lituania, Estonia, Lettonia) alla vigilia del Consiglio dell’UE «Giustizia e affari interni», tenutosi il 7 e l’8 ottobre 2021. I dodici stati membri hanno indirizzato una lettera alla Commissione europea per chiedere nuove misure in materia migratoria. Tra queste, finanziare la costruzione di muri e recinzioni per frenare i flussi di migranti, in particolare dalla Bielorussia. Nelle ultime settimane, infatti, Polonia e Lituania hanno già risposto con barriere difensive all’arrivo al confine dei migranti, spinti dal dittatore bielorusso Alexander Lukashenko.

Al suo ingresso al consiglio Ylva Johansson, commissaria agli Affari Interni, ha spiegato come le pressioni migratorie dal Mediterraneo, dalla rotta atlantica e dall’ aggressione di Lukashenko richiedono l’implementazione del Patto sull’immigrazione e l’asilo per una migliore gestione del fenomeno migratorio. Johansson ha bocciato la richiesta dei dodici paesi. Niente fondi comunitari per tutelare le frontiere esterne dell’UE. Ma non ha escluso la possibilità per i singoli Stati di ricorrere a strumenti di protezione dei confini.

Dunque, barriere fisiche e difensive. La “fortezza Europa” continua a innalzarsi, in un clima dove i timori delle migrazioni incontrollate legittimano misure restrittive. Dal 2018, sono aumentate le chiusure ai confini esterni dell’Unione. La Turchia vede una frontiera di 250 chilometri al confine con la Bulgaria e una di 40 al confine con la Grecia. Molti muri percorrono i Balcani, tra Grecia e Macedonia del Nord, tra Croazia e Slovenia, tra Serbia e Ungheria. La Spagna ha potenziato le sue recinzioni a Melilla e Ceuta, mentre la Francia si mostra intenzionata a fortificare la sua frontiera attorno al porto di Calais.

Di fronte alle chiusure, cosa fare? Serve una duplice azione. Sul piano umanitario, occorrono canali sicuri di ingresso per mettere in salvo i più fragili e le persone in stato di bisogno. A livello politico, serve agire concretamente sulle cause profonde delle migrazioni, tramite accordi di partenariato con paesi terzi, azioni di peace building e prevenzione dei conflitti. Serve uno slancio concreto nella lotta al cambiamento climatico, le cui conseguenze sono un fattore sempre più rilevante per le migrazioni.

Ma tutto questo può solo realizzarsi con una concreta solidarietà dell’UE. Superare il conflitto tra la vocazione sovranazionale delle istituzioni e il mantenimento delle prerogative nazionali gelosamente custodite dagli Stati è fondamentale per rafforzare le competenze dell’UE in materia di immigrazione.

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