Il 29 marzo prossimo si terrà in Italia il referendum costituzionale relativo al cosiddetto “taglio dei parlamentari”, approvato in seconda deliberazione dalle Camere nella concitata fase politica che ha visto l’avvicendamento, quale principale alleato di governo del Movimento 5 Stelle, di Lega e Partito democratico.
Come previsto dalla Costituzione italiana, si tratta di una consultazione popolare priva di quorum di validità: la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori elettivi da 315 a 200 sarà cioè confermata o bocciata, indipendentemente dall’affluenza alle urne, a seconda che al termine dello spoglio prevalgano i voti favorevoli (i «Sì»), oppure quelli contrari (i «No»).
Ad una prima occhiata, il quesito potrebbe apparire circoscritto. Non è un caso che nel luglio 2018, a poche settimane dall’insediamento del primo Governo Conte, l’allora Ministro per i Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta, On. Riccardo Fraccaro, annunciasse alle Commissioni riunite «Affari Costituzionali» di Camera e Senato una serie di riforme istituzionali, da realizzare attraverso la proposizione di atti brevi e separati che permettessero agli elettori di pronunciarsi, in caso di referendum costituzionale, su singoli quesiti. Un decisivo cambio di passo rispetto al 2006 ed al 2016, quando, chiamati ad esprimersi in blocco su revisioni di ampia portata che ridefinivano i poteri fra gli organi costituzionali (e fra lo Stato e le Regioni), i cittadini avevano bocciato le proposte del Parlamento.
Tuttavia, l’apparenza, si sa, inganna. E, benché l’oggetto del quesito sia banalmente il taglio netto di circa un terzo dei seggi - che riduca lo scarto fra il numero dei parlamentari italiani e quello delle altre democrazie europee, bilanciando l’esigenza della rappresentatività con il principio di efficienza delle Camere -, nella nuova maggioranza di governo è già stata raggiunta l’intesa di massima sulle riforme complementari che si renderebbero necessarie nel caso (praticamente certo, a leggere i sondaggi) in cui il «Sì» dovesse prevalere e il taglio dei parlamentari diventare definitivo.
Da mesi, si discute di una modifica del sistema elettorale, che, in ragione della riduzione dei seggi e di una ritenuta insostenibilità delle clausole maggioritarie introdotte nel ‘93 con referendum popolare, sarebbe riportato nell’alveo delle formule proporzionali (tanti voti, tanti seggi) con alcuni correttivi, fra i quali una soglia di sbarramento particolarmente elevata, fissata al 5%.
Ma non è tutto. Il taglio dei parlamentari rischierebbe, infatti, di atrofizzare i meccanismi decisionali del Parlamento e snaturare il procedimento democratico che nelle Camere si esprime: è il caso delle commissioni convocate in sede deliberante, che hanno facoltà di adottare le leggi senza passaggi ulteriori nell’Aula parlamentare, nelle quali gli atti legislativi potrebbero essere approvati con il voto favorevole di una manciata di persone. Prima che cali il sipario sull’attuale Legislatura e che si torni al voto, le Camere dovrebbero perciò intervenire sui propri regolamenti parlamentari, riducendo il numero delle commissioni e rimodulandone le funzioni; modificando la composizione degli uffici di presidenza, delle giunte e delle stesse commissioni; e ritoccando alcuni quorum regolamentari.
Per quanto riguarda le successive riforme di rango costituzionale, sono state avanzate alcune proposte, già all’esame del Parlamento, che dovrebbero necessariamente accompagnare il taglio dei parlamentari. Si tratta:
a) della riduzione del numero dei delegati regionali che hanno diritto di voto in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, che sia proporzionale alla riduzione dei seggi parlamentari e che mantenga invariati i rapporti di forza fra la componente nazionale e quella regionale;
b) dell’equiparazione fra elettorato attivo e passivo delle due Camere, che permetta a tutti coloro che abbiano raggiunto la maggiore età di votare anche per il Senato e di potervi essere eletti sin dal compimento dei venticinque anni di età, in luogo dei quaranta;
c) del definitivo superamento del principio, introdotto dall’Assemblea Costituente su ispirazione delle istanze federaliste, per cui i senatori sono eletti «su base regionale» (art. 57 Cost.), tramite la previsione di un’elezione “circoscrizionale” che permetta allo Stato di riunire le Regioni in circoscrizioni elettorali macroregionali, evitando gli effetti distorsivi della rappresentanza politica delle più piccole comunità. La riduzione del numero dei parlamentari, che riguarda poco più del 30% dei seggi nazionali, non si riflette, infatti, in maniera proporzionale fra tutte le Regioni: sul piano statistico, Regioni come l’Umbria e la Basilica subirebbero una riduzione dei seggi nell’Aula del Senato di quasi il 60%. Un taglio netto che si riverserà principalmente sulle Regioni più piccole del Centro-Sud; e che, nel lungo periodo, potrebbe condurre ad un profondo mutamento dello stesso significato attribuito alla rappresentanza nel Senato.
In questo contesto, scompare qualsiasi riferimento alle prospettive evolutive della seconda Camera repubblicana. Nei prossimi mesi, al di là degli esiti del referendum, i federalisti italiani avranno il compito di impostare una più ampia riflessione sugli elementi regionalisti che dovrebbero caratterizzare il nostro sistema parlamentare. E promuovere sul tema un dibattito articolato e vivace, che ponga le basi per un ripensamento efficace del bicameralismo italiano e per la creazione di un valido Senato delle Regioni.
Un dibattito essenziale: non solo per gli esiti del processo di riforme che dovrebbe avere inizio con il taglio dei parlamentari; ma anche, più in generale, (in vista di un’audace riforma dell’Unione europea) per la realizzazione di un federalismo che integri i livelli nei quali si articola la Repubblica, in luogo di un sistema regionale che li organizzi per compartimenti stagni, promuovendo in realtà l’indebita predominanza dell’uno sugli altri.
Il Senato delle Regioni nel contesto italiano
Nel corso della XIII Legislatura (1996-2001), il Parlamento italiano ha adottato una serie di riforme legislative e costituzionali, che hanno ridefinito i poteri dello Stato e degli enti infrastatali. In particolar modo, con la riforma del Titolo V si è voluto invertire il rapporto fra Regione e Stato modificando la ripartizione delle competenze, sul modello delle Carte federali. Un rovesciamento, peraltro, rimodulato negli anni successivi dagli interventi repentini della Corte Costituzionale (e sollecitati dai Governi successivi) a tutto vantaggio dello Stato.
Approvata in tutta fretta sul finire della Legislatura, la riforma del Titolo V non ha saputo affrontare efficacemente la questione della (mancata) compartecipazione delle Regioni all’attività legislativa dello Stato, che l’istituzione di un Senato delle Regioni avrebbe potuto risolvere. Per giunta, omettendo di dare attuazione ad una precisa disposizione costituzionale, non si è mai proceduto a modificare i regolamenti parlamentari per permettere ai rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome di Trento e di Bolzano e degli enti locali di partecipare ai lavori delle Commissioni parlamentari istituite per le questioni regionali. Una misura transitoria, che avrebbe dovuto anticipare la riforma del bicameralismo.
Negli ultimi vent’anni, qualunque progetto di revisione dei caratteri propri della seconda Camera è andato ad impantanarsi nelle ampie leggi approvate a colpi di maggioranza (ora dal Centrodestra, ora dal Centrosinistra) e rigettate dalle consultazioni popolari che ne sono seguite. E ciò, nonostante un dibattito più che quarantennale sui destini del Senato della Repubblica. Fra le molte riflessioni elaborate da autori federalisti, voglio citare due commenti, pubblicati dalla rivista «Il Federalista» nel lontano 1983: il saggio Federalismo fiscale e Senato delle Regioni nella prospettiva di una riforma istituzionale della Comunità europea di Alberto Majocchi e le Considerazioni sul Senato delle Regioni di Francesco Rossolillo.
Gli elementi essenziali, che debbono essere presi in considerazione per un confronto introduttivo sul Senato delle Regioni, sono tre: le funzioni, la composizione e le modalità di elezione.
1. Per quanto riguarda le funzioni, la scelta si pone sostanzialmente fra l’attribuzione al Senato delle Regioni del medesimo ruolo affidato alla Camera dei deputati (bicameralismo perfetto) e la diversificazione delle competenze fra i due rami del Parlamento (bicameralismo imperfetto).
Qualora si dovesse propendere per la seconda ipotesi, non potrebbero che spettare al Senato i necessari poteri di controllo sugli atti dello Stato centrale che hanno ripercussioni a livello territoriale. Sul piano tecnico, potrebbe rivelarsi utile procedere all’eliminazione del catalogo delle materie di competenza concorrente (tecnicamente: “ripartita”) previsto dal Titolo V, che ha generato una grande confusione sia nella teoria che nella pratica, e l’inserimento di una “clausola di supremazia” che permetta alla legislazione statale, in casi eccezionali e debitamente predefiniti, di intervenire nelle materie ordinariamente attribuite alle Regioni; e che il Senato continui ad essere coinvolto su un piede di parità nella formazione di questa nuova tipologia di leggi (che evidentemente interesserebbero le Regioni), dei provvedimenti finanziari dello Stato, degli atti che regolano la partecipazione dell’Italia all’Unione europea e delle leggi che debbano essere sottratte alla volontà delle maggioranze politiche pro tempore (come, ad esempio, le leggi costituzionali).
La scelta, riguardante le funzioni della seconda Camera, incide sensibilmente su un’altra delicatissima questione: e cioè sull’attribuzione del potere di dare e ritirare la fiducia al Governo. Qualora si dovesse conservare un sistema bicamerale paritario, sarebbe assai discutibile la sottrazione di tale facoltà al Senato delle Regioni, dal momento che lo stesso Senato svolgerebbe un ruolo di primissimo piano partecipando integralmente alla formazione di qualunque atto politico. In caso contrario, potrebbe essere opportuno che il rapporto fiduciario con il Governo sia riservato alla sola Camera dei deputati; ma, in tal caso, dovrebbe essere verosimilmente sottratto al Presidente della Repubblica il potere di scioglimento del Senato, che non avrebbe più alcuna giustificazione.
D’altro canto, la rimodulazione delle funzioni delle due Camere non può prescindere da un ripensamento delle ipotesi di convocazione del Parlamento in seduta comune, oltre che della composizione di altri organi costituzionali. Il riferimento è, evidentemente, alla Corte Costituzionale, che, composta di 15 giudici aventi specifici requisiti professionali, è eletta per un terzo dalle supreme magistrature dello Stato (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei Conti), per un terzo dal Presidente della Repubblica e per un terzo dal Parlamento in seduta comune. Ad un Senato, adeguatamente composto di rappresentanti delle istanze regionali, potrebbe essere validamente attribuita la facoltà di eleggere in autonomia un numero di giudici costituzionali. Una scelta giusta, dal momento che, pronunciandosi sulle competenze di leggi statali e regionali, la Corte Costituzionale non svolge solamente le funzioni di “Legislatore negativo” dello Stato, ma anche delle Regioni.
2. La questione inerente alla composizione del Senato delle Regioni ha a che fare con la proporzione nella quale esse siano rappresentate nell’emiciclo.
Le soluzioni, che possono essere adottate, sono tre. La prima consiste nell’attribuire un eguale numero di rappresentanti a tutte le Regioni, indipendentemente da quello degli abitanti; tale scelta, che attribuisce la medesima dignità a tutte le comunità, è applicata, ad esempio, negli Stati Uniti d’America ed in Svizzera. La seconda soluzione consiste, invece, nell’assegnazione del numero di seggi in maniera proporzionale alla popolazione di ciascuna Regione. La terza, che si pone a metà strada fra i due opposti, consiste nelle forme di “rappresentanza ponderata”, che possono implicare l’attribuzione dei seggi in riferimento al numero degli abitanti fra limiti massimi e minimi, oppure per fasce di popolazione.
Benché rappresenti in astratto la soluzione più convintamente federalista, l’attribuzione di un egual numero di seggi a tutte le Regioni potrebbe rivelarsi non praticabile in Italia. Per alcuni, tale fatto sarebbe determinato dalla notevole diversità fra le cifre di popolazione delle varie Regioni, che renderebbero la rappresentanza paritetica uno strumento di sopruso della minoranza nei confronti della maggioranza. Tuttavia, una posizione del genere non è per nulla condivisibile: se tale sistema è applicato (e con successo) da illustri ordinamenti federali, non si intravedono ragioni sufficienti ad escluderlo, almeno in linea teorica. Il problema nasce piuttosto da una considerazione pratica: la rappresentanza paritetica provocherebbe una modifica sostanziale dei rapporti politici che oggi si sviluppano nel quadro nazionale fra le varie comunità regionali. Ciò potrebbe rivelarsi in concreto un motivo di forte opposizione alla creazione di un Senato delle Regioni, che vanificherebbe qualsiasi tentativo di riforma.
La scelta più adatta al contesto italiano è forse la rappresentanza ponderata, che più si confà all’attuale assetto del Senato, a patto che la forbice fra i limiti minimo e massimo dei seggi attribuibili alle Regioni sia adeguatamente contenuta, onde evitare che il sistema tenda irreversibilmente alla proporzionalità.
In riferimento ai criteri di composizione, va ancora segnalato che, secondo alcuni, nel Senato delle Regioni dovrebbero essere rappresentati anche gli enti locali: tale linea sarebbe giustificata dal fatto che le Province e i Comuni, al pari delle Regioni, sarebbero destinatarie delle norme e dei vincoli posti dalle leggi dello Stato; e che, pertanto, abbiano diritto di compartecipare direttamente alla loro formazione. Era questa, ad esempio, la scelta operata dalla riforma Renzi-Boschi, che riservava ai sindaci alcuni seggi del Senato.
Nondimeno, si tratterebbe di snaturare il processo di creazione di un Senato delle Regioni, attraverso l’istituzione di una “Camera degli enti locali”. Un’operazione discutibile in un momento in cui andrebbe valorizzato il ruolo politico delle Regioni.
Ciò non toglie che Province e Comuni non meritino di partecipare alla formazione delle leggi: tale operazione potrebbe realizzarsi, da un lato, mediante un compiuto ripensamento del sistema delle Conferenze, che oggi regola sul piano amministrativo il raccordo fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali; e, dall’altro, attraverso un rafforzamento degli organi consultivi regionali (i Consigli delle autonomie locali), rappresentativi degli stessi enti locali, superando l’impianto monocamerale che contraddistingue le nostre Regioni, e realizzando un bicameralismo sostenibile anche a livello regionale.
3. Strettamente collegata alla composizione del Senato delle Regioni è la questione attinente alla modalità di elezione.
Esiste, sul punto, una pluralità di scelte astrattamente applicabili. Vi sono Stati federali nei quali l’elezione è di secondo, o addirittura di terzo grado. In Austria, ad esempio, i senatori sono eletti con mandato libero dai parlamenti regionali; mentre in Germania, i membri del Senato sono delegati dei Governi dei Länder, nominati con vincolo di mandato.
Tali sistemi, tuttavia, non mi sembrano particolarmente adatti al contesto italiano. L’elezione di secondo grado, che si è sviluppata nella vicina Austria quale eredità dell’antico sistema consultivo asburgico e che ha prodotto, suo malgrado, un modello di Senato debole, non è coerente né con la tradizione costituzionale italiana, né con le più avanzate aspirazioni federaliste; mentre il sistema tedesco di elezione da parte dei Governi regionali mal si concilia sia con il caso di elezione indiretta del Presidente della Giunta (che, trasformando la nomina in un’elezione di terzo grado, cancella qualsiasi rapporto di rappresentatività fra senatori e cittadini), sia con il caso di elezione diretta del Presidente (che si regge su meccanismi fortemente maggioritari e che impedirebbe l’accesso in Senato alle minoranze).
Una scelta che mi pare invece adeguata al caso italiano è l’elezione diretta dei senatori, abbinata alle elezioni regionali, che permetta di controbilanciare l’esigenza di rappresentanza delle istanze regionali con il legittimo interesse alla conservazione del suffragio universale, che è diventato una caratteristica essenziale del nostro assetto bicamerale.
Non ha senso, infatti, che si colga a piene mani dagli altri ordinamenti, stravolgendo i caratteri del Senato della Repubblica e proponendo agli elettori modelli ibridi ed poco comprensibili. Un Senato delle Regioni, che, ispirato dai princìpi della rappresentanza ponderata ed eletto direttamente dai cittadini, sia la naturale evoluzione della seconda Camera repubblicana, permetterà al Legislatore costituzionale di concentrarsi sulle questioni inerenti le funzioni delle Camere ed il rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo.
Tuttavia, se si dovesse aprire uno spiraglio per una più ampia revisione e si dovesse comporre il Senato di rappresentanti eletti dagli organi regionali, sarebbe cauto impostare una riflessione, seria ed approfondita, sul mantenimento del regime di incompatibilità fra funzioni elettive attualmente previsto per i senatori elettivi, vietando doppi o tripli incarichi ai nuovi membri del Senato. Sarebbe tragico che si rinunciasse a formare una classe politica, che, operando nella Capitale, funga da raccordo fra Regioni e Stato, inseguendo ciecamente la retorica del taglio delle poltrone e la ricerca del consenso.
Il Senato delle Regioni nel contesto europeo
Come è noto, l’Unione europea non ha (ancora) una Costituzione democratica, approvata da un’Assemblea legittimata dal voto popolare. Ciononostante, è possibile intravedere nell’impianto istituzionale delineato dai Trattati alcuni caratteri essenziali, che oggi condizionano il processo politico di integrazione e che, come dimostra lo studio storico di tali processi, influenzerà in futuro le scelte della Costituente europea.
Se si vogliono analizzare l’assetto istituzionale dell’Unione e i margini di creazione di un Senato delle Regioni anche a livello sovranazionale, bisogna prendere in considerazione gli elementi costitutivi delle seguenti istituzioni europee:
a) del Parlamento europeo, che è eletto a suffragio universale dai cittadini europei ogni cinque anni. I seggi del Parlamento sono attribuiti ai vari Stati membri fra un minimo di sei deputati e un massimo di novantasei, in rapporto alla loro popolazione; le modalità di elezione sono disciplinate dagli Stati nel rispetto di alcuni princìpi comuni. Nella prospettiva costituzionale, il Parlamento europeo ha tutte le carte in regola per trasformarsi in una Camera bassa dell’Europa federale;
b) del Consiglio dell’Unione europea, che è composto dai rappresentanti dei Governi nazionali e, in particolar modo, dai ministri o dai sottosegretari competenti per materia, a seconda degli oggetti che sono posti all’ordine del giorno. Nel lungo periodo, se saranno privilegiate le sue funzioni legislative (a discapito di quelle esecutive) e si procederà a rendere più trasparenti i suoi processi decisionali, potrebbe mutare in una sorta di “Senato degli Stati”;
c) della Commissione europea, che è composta da tanti commissari quanti sono gli Stati membri. I suoi componenti sono eletti attraverso un complesso procedimento che vede la partecipazione del Consiglio europeo (al quale spetta la nomina) e del Parlamento europeo (che a seguito di audizioni parlamentari esprime un voto sui candidati). I tratti somatici, che lo fanno somigliare ad un Governo dell’Unione europea, saranno ulteriormente marcati qualora la Commissione dovesse assorbire i poteri esecutivi oggi disseminati fra più istituzioni. Se poi dovesse rafforzarsi in via di prassi il legame politico con il Parlamento europeo, la Commissione rappresenterebbe a livello sovranazionale il perno di un moderno sistema parlamentare;
d) del Consiglio europeo, che è sostanzialmente composto, a seconda dello Stato membro, dal Capo di Stato o dal Capo del Governo nazionale. In prospettiva, se le riforme istituzionali dovessero neutralizzarlo sul piano politico, il Consiglio europeo muterebbe rapidamente in una sorta di “Presidenza dell’Unione”. A differenza, ad esempio, della Presidenza della Repubblica italiana (che è un organo monocratico, il cui titolare, cioè, è una sola persona), si tratterebbe di una presidenza collegiale: un esperimento nuovo, che, seppur simile per certi versi al sistema direttoriale diffuso in Svizzera, porterebbe a separare le funzioni presidenziali (attribuite al Consiglio europeo) dalle funzioni di governo (attribuite alla Commissione europea) su influenza dei sistemi parlamentari tradizionali;
e) infine, del Comitato europeo delle Regioni, che è un organo consultivo dell’Unione europea ed è composto di un numero di rappresentanti pari a circa la metà dei seggi del Parlamento europeo. Al suo interno, siedono rappresentanti eletti negli enti locali nazionali; i seggi sono ripartiti fra gli Stati membri. L’Italia, in particolare, ha attualmente diritto a ventiquattro seggi, che, per un’ovvia questione di numeri, sono attribuiti, a seguito di certi procedimenti decisionali integrati nel sistema delle Conferenze, ai rappresentanti di alcune Regioni ed di alcuni enti locali solamente.
Nell’ottica costituzionale, il Comitato delle Regioni è paragonabile ad una sorta di terza Camera dell’Europa unita che, a seconda dei progetti di riforma, potrebbe rimanere un mero organo di consultazione degli organi più strettamente politici, ma anche acquisire maggiori poteri in ambito legislativo.
Il destino del Comitato delle Regioni si lega inesorabilmente con l’evoluzione delle istituzioni di stampo parlamentare, quali il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’Unione europea. Peraltro, sarà determinante il modo con il quale si affronterà sul piano istituzionale la questione delle cosiddette «Nazioni senza Stato» ed, in genere, delle minoranze etnico-linguistiche che si concentrano in territori delimitati.
Nel caso in cui la piena realizzazione dell’Unione federale dovesse accelerare la disgregazione politica degli Stati nazionali e la creazione di nuovi enti federati dell’Europa unita, è evidente che le esigenze di rappresentanza politica di tali minoranze sarebbero efficacemente soddisfatte sia nel Parlamento europeo (la Camera dei deputati europea), i cui seggi potrebbero continuare ad essere attribuiti agli enti federati, sia nel Consiglio dell’Unione (il Senato degli Stati), all’interno del quale siederebbero i delegati degli esecutivi. In questo contesto, potrebbe cristallizzarsi la funzione meramente consultiva del Comitato delle Regioni, che diverrebbe sempre più un organo di raccordo fra l’Unione federale e le amministrazioni locali, somigliando piuttosto ad una Camera degli enti locali.
Qualora, invece, il processo disgregativo non fosse avviato, è chiaro che la questione delle minoranze non potrebbe comunque essere rimandata.
Per quanto riguarda Consiglio dell’Unione europea, tali comunità potrebbero continuare a giocare un ruolo politico partecipando all’elaborazione della linea del Governo nazionale e, in sede europea, affiancando i rappresentanti degli Stati per mezzo di delegati speciali.
Nel Parlamento europeo, per contro, sarebbe necessario superare la prospettiva nazionale dell’attribuzione dei seggi, attraverso (a seconda del caso) la creazione di circoscrizioni elettorali ad hoc e collegi trasfrontalieri. Si è già affrontato questo tema con riferimento alla rappresentanza italiana in un articolo pubblicato su questo blog nell’ottobre scorso.
Per quanto riguarda, infine, il Comitato delle Regioni, potrebbe essere opportuno implementarne le funzioni ed intervenire sul fronte della sua composizione, andando oltre l’attuale assetto (fondato sull’attribuzione dei seggi agli Stati membri) e garantendo, ad esempio, rappresentanze certe a tutti gli enti infrastatali che, a fianco delle competenze di tipo amministrativo, esercitino funzioni di natura politica nella dimensione interna dello Stato. È il caso delle Regioni negli Stati federali (quali, ad esempio, il Belgio e la Germania) e negli Stati regionali (come l’Italia e la Spagna).
Senza dubbio, vista la pluralità di soluzioni adottate negli Stati europei in materia regionale, si tratterebbe di un’operazione complessa, che inciderebbe nell’immediato sui rapporti di forza realizzatisi fra le varie realtà territoriali ed emergenti nel Comitato delle Regioni. Ma si tratterebbe, altresì, di un’operazione necessaria, che incentiverebbe la trasformazione in senso federale degli stessi Stati nazionali e che, a livello sovranazionale, realizzerebbe in concreto un Comitato delle Regioni d’Europa degno di questo nome.
È forse in questa direzione che bisognerebbe indirizzarne la riforma: offrendo uno spazio politico alle realtà marginali. Per fare ciò non sarà sufficiente elaborare sofisticate proposte di revisione, ma sarà necessario intervenire sui princìpi che orientano l’azione (e l’attenzione) dell’Unione europea, superando il prima possibile l’impostazione dannosa per cui i rapporti con le comunità regionali e le minoranze nazionali rappresenterebbero una mera questione interna agli Stati, sottratta alle interferenze dell’Europa.
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