Per una politica di difesa federale

Dove siamo oggi e dove bisogna puntare nel futuro prossimo.

, di Davide Emanuele Iannace

Tutte le versioni di questo articolo: [English] [italiano]

Per una politica di difesa federale
Il tenente generale (DEU) Jürgen WEIGT passa il comando degli Eurocorps (HQ EC) al tenente generale (FRA) Laurent KOLODZIEJ, 12 settembre 2019.

Eurobull ha già precedentemente curato il tema della difesa comune [1]. È un tema in qualche modo che si ripete costantemente nel discorso federalista, in quanto rappresentativo di un elemento cardine, come ripetuto più volte, per uno Stato Federale. Non è pensabile uno stato federale se non esiste un organo capace di dirigere, in maniera indipendente dalle sue nazioni-membro, la politica estera e la politica di difesa. Rimarrebbe incompleto, spezzato, un Behemoth zoppo. A livello teorico, la discussione cardine sul tema della difesa europea è: come la si costruisce? Gli approcci, in generale, al costrutto europeo son sempre stati vari. C’è chi ha favorito un approccio bottom-up che parta dalla pratica di collaborazione nazionale per generare forme più stabiliti di sostegno e unione da poi esportare e solidificare in trattati e leggi europee. C’è chi invece si sofferma maggiormente su un approccio dall’alto, con la creazione da parte delle istituzioni europee di forme collaborative che spingano le nazioni a interagire. È il caso degli accordi PESCO (di cui abbiamo precedentemente parlato qui e qui, tra gli altri), il cui progetto era spingere proprio nella direzione di una maggiore cooperazione, su base volontaria, attirando grazie al potere semplicemente monetario. Difficilmente le nazioni rifiutano la possibilità di ottenere fondi per la Difesa che pesano sui propri contribuenti solo per via indiretta, quindi politicamente ben spendibile.

Il problema principale delle pratiche bottom-up è che di fatto hanno bisogno di “Moreover, research has shown that this kind of cooperation efforts can be more successful in the presence of certain conditions, such as for instance trust, solidarity, realism, clarity, seriousness of intentions, and low/null costs [2]. Di fatto, ovvero, solo in presenza di condizioni che possiamo definire come politicamente ed economicamente favorevoli all’interscambio, in assenza di possibili problematiche (anche di sovranità) ma anche di opposizione politica interna. Tenere un basso profilo, procedere per gradi, cercando di catturare risorse laddove possibile senza praticamente dare nell’occhio mentre si mandano avanti progetti che, se poi riconosciuti come di successo, si ampliano costantemente. Una strategia che, almeno nell’ambito della difesa, nonostante i passi avanti in particolare per quel che riguarda la collaborazione nella progettazione e produzione di mezzi e tecnologie per la difesa, per controbattere contro quei grandi consorzi industriali che le singole nazioni europee non potrebbero assolutamente affrontare. Il modello FREMM di fregata ne è un esempio. Frutto della collaborazione italiana e francese, si è dimostrata un modello vincente anche per l’ottenimento di importanti committenze straniere, come nel caso americano. Eurofighter, FREMM, le future corvette europee rientrate all’interno dei PESCO stessi, sono dimostrazioni lampanti che, sul piano industriale, delle forme collaborative (estemporanee) esistono e si possono ulteriormente solidificare. Quello che manca, decisamente, è invece la direttiva politica.

Se Fabio Liberti ha già messo bene in luce tutte le motivazioni, economiche soprattutto, per le quali forme di collaborazione intra-europee possono solo essere dei sistematici vantaggi, bisogna cominciare a riflettere seriamente, in particolare all’ombra della recente pandemia e di tutto ciò che ha conseguito per il mondo europeo e non, sulla problematicità politica e sulla possibile attuazione di una vera, reale e pratica unificazione delle direttive della difesa dei 27 stati membri. Il problema della difesa si interseca in maniera stabile con quello della politica estera comune. Abbiamo già parlato di cosa abbia voluto significare per gli europei muoversi incostantemente nell’ambito, ad esempio, Mediterraneo, senza una comune strategia. Francia e Italia hanno esportato in Libia la loro rivalità (quando l’Italia si faceva ancora particolarmente interessata al problema), di fatto impedendo una risoluzione di matrice europea al problema fin dal momento del suo insorgere all’alba delle primavere arabe. Se oggi troviamo la Libia divisa tra GNA e LNA, tra appoggi stranieri come quelli emiratini, turchi, russi e anche francesi (anche se in misura minore oramai), è anche perché la mancanza di una politica estera di matrice federale ha impedito il muoversi compatto del blocco europeo e un suo intervento unitario nello scenario Nord Africano. Il problema si è ripetuto in Siria e si sta ripetendo nell’area cipriota, dove pure gli interessi europei dovrebbero muoversi compatti, piuttosto che divisi, dinanzi le prepotenze turche. È fondamentalmente inutile pensare a una politica comune di difesa o a una politica comune estera. Serve pensare a questo insieme. Non c’è l’una senza l’altra, è impossibile separarle e soprattutto imprescindibile svolgere l’azione politica verso la loro formazione contemporaneamente, su binari che devono, prima o poi, intersecarsi. Se si guarda, oggi, alle operazioni in territorio straniero condotte dall’Unione Europea o dalle sue singole nazioni, si possono notare delle discrete ridondanze, spesso inutili, come nel caso del Sahel, dove contemporaneamente esistono tre operazioni sotto egida europea (EUCAP Sahel Niger, EUCAP Sahel Mali, EUTM Mali) [3] e MINUSMA sotto l’egida delle Nazioni Unite, a cui è parallelo l’intervento francese tramite Barkhane. Certo, ci sono delle ragioni geopolitiche dietro questa pletora di azioni militari e civili (nessuno potrebbe negare l’intervento particolare francese nella regione) ma questo di certo non scusa la mancanza di una chiara politica comune di intervento. Il Sahel si unisce agli esempi precedenti. La mancanza di una politica coordinata estera porta a risultati disastrosi nel momento in cui si interviene. La Libia è sprofondata nel caos e anche la regione del Sahel non si può dire pacificata. Si vuole specificare: non che l’Unione possa fare da poliziotto del mondo, né è tantomeno al comando di una magica bacchetta che permette la fine delle guerre dove va. Sul tema delle operazioni internazionali e del loro ruolo si può dire tanto, tantissimo, questo non è ora il luogo né il tempo giusto per farlo. Altrettanto ovvio è che la mancanza di coordinazione e la presenza in campo di forze con obiettivi paralleli e mai uguali, a comandi diversificati, disunite, sul medesimo territorio e con l’ausilio dei medesimi attori politici locali, crea quel necessario caos istituzionale e organizzativo che le rende, di fatto, se non controproducenti, sicuramente inutili. La presenza di attori politici locali che hanno poi interessi diversi, che si appoggiano ora a questa potenza e ora a quest’altra, come successo in Libia, aiuta solamente a generare una maggiore insicurezza e a rafforzare l’idea della disunità europea.

Poiché le battaglie politiche sono, anche, battaglie di simboli e immagini, anche questo è un effetto che va tenuto in conto, al di là di tutte le motivazioni di matrice economica, politica e di interessi della difesa. L’Europa ad oggi conta un forte comparto industriale nell’area bellica (tra cui si annoverano Rheimtall, Leonardo e BAE System, ad esempio), che hanno spesso dato il meglio di sé nel momento in cui hanno collaborato. MBDA ne è un esempio lampante, come frutto di un consorzio di diverse compagnie europee, leader nella produzione missilistica. È chiaro che, come ben altri hanno detto, l’alleanza di tipo industriale-economica è una sostanziale, ma soprattutto pratica, forma di collaborazione immediata e dagli effetti chiaramente positivi per il comporto tutto. Uno, per l’indotto economico diretto. Due, perché spesso quegli stessi prodotti significano risparmio sui budget, vendita a paesi terzi (e quindi diplomazia unica nel momento in cui il prodotto è frutto di una collaborazione) ma anche rafforzamento dell’idea che, uniti, si fa meglio e di più. Il caso del futuro caccia di sesta generazione, un passo indietro rispetto al futuro, ne è sintomatico. Produrre un caccia europeo unico come nel caso Eurofighter vuol dire unire le risorse di R&D in primo luogo, ma anche poi del comparto produttivo stesso nel momento della sua costruzione, puntando alla costruzione di qualcosa che, divisi, sarebbe impossibile. La divisione tra i progetti franco-tedesco e il Tempest britannico (a cui anche Leonardo parteciperà), è sintomatico che manca ancora una visione di insieme che spinga a uniformare le forze europee per quel che riguarda le strumentazioni introdotte.

Questo è impossibile se le scelte politiche, a monte, non si muovono nella direzione di maggior collaborazione e unione di intenti. Collaborazione e unione che, certamente, vorranno dire minore libertà della singola nazione e di certo un passaggio dei poteri a un livello chiaramente federale. Livello che però non può essere né la Commissione né il Consiglio. Su questo ci sono ben pochi dubbi. Un solo organo può e deve avere il controllo dell’apparato della difesa ed è il Parlamento Europeo, l’unico organo eletto per via diretta dalla popolazione europea. Il settore della difesa infatti non può trascendere dal controllo della governance di tipo democratica.Giusto il ruolo del Parlamento UE nella difesa, tuttavia si potrebbe sottolineare come il suo coinvolgimento sia ancora assai limitato poichè ridotto all’esercizio di mere funzioni consultive. L’istituzione del Subcommittee on Security Defence (con lo scopo di assistere il Comm. on Foreign Affairs) all’interno del Parlamento non ha infatti condotto ad una significativa estensione dei suoi poteri in materia. Il passaggio ad una forma europea di difesa non deve diventare l’occasione per eliminare la tanto faticosa (e mai abbastanza) trasparenza delle forze armate verso la propria popolazione, come lo è stato il passaggio da un modello stato-centrico a uno semi-corporativo per le forze armate americane, dove il maggior numero di contractors nella sua struttura concedono zone grigie al potere esecutivo che, nella futura Federazione Europea, non possono e non devono trovare spazio. C’è anche chi negli anni ha proposto di istituire un Consiglio di sicurezza dell’UE al fine di rafforzare il pensiero strategico in ambito di difesa e sicurezza. Proposta valida? Alimenterebbe un eccessivo pluralismo istituzionale? Meglio contare sugli organi di cui già si dispone piuttosto che crearne di nuovi? Di per sé, si tende a pensare che le istituzioni europee siano più che sufficienti a coprire il vasto range di attività che, già oggi, l’Unione cerca di controllare. Un Consiglio di Sicurezza sarebbe possibile a patto che, come si è detto, esso sia sotto il controllo dell’unico organo (o collabori) eletto, ovvero quel parlamento europeo che deve vedere il suo ruolo rafforzato. Esistono sostanziali vantaggi nel creare organi ex-novo, quale ad esempio la possibilità che non sussistano pregiudizi di sorta verso il suo utilizzo, per citarne uno. Crearlo o non crearlo, però, sarà comunque soggetto all’idea e al disegno di una vera e propria strategia e non solo un pragmatismo politico teso all’improvvisazione del momento. L’Unione ha dimostrato in altri settori che la collaborazione è una strategia vincente per sopravvivere in ambienti sempre più complessi, iper-connessi e globalizzati. Difesa e politica estera possono essere, sotto la giusta governance e in un ambiente democratico, i necessari passi verso la Federazione e non solo la sua conseguenza. Troppi sono gli interessi nazionali che cozzano con quella perdita di sovranità assolutamente necessaria per scalare ad un nuovo livello di collaborazione tra i popoli europei, interessi che si esprimono tramite le armi, la loro vendita, e una diplomazia spesso aggressiva, competitiva, e soprattutto da attore singolo e non in team. Se molti hanno auspicato l’unificazione di questi settori post federazione, si reputa che sia invece esattamente il contrario quello di cui ci sia oggi bisogno. I battaglioni europei, i progetti congiunti, i PESCO, così come i comandi unificati di controllo e tutte quelle attività e operazioni condotte da nazioni europee insieme sono dei piccoli passi in una giusta direzione, ancora però bagnate dall’acqua del senso di divisione nazionale.

È invece impellente la necessità di fare dei sostanziali passi in avanti, partendo dal settore economico (come gli articoli citati hanno messo in luce) tramite forme di collaborazione più stringenti, tramite il controllo europeo dei mega-consorzi e tramite l’uniformazione dei mezzi e degli strumenti bellici; d’altro canto, anche il loro poi uso andrà subordinato ad un organo democratico, il Parlamento, e ad una politica comune che non può prescindere ovviamente alla forma federale di stato. In presenza di attori aggressivi sulla scena mediterranea ed est-europea, per citarne due, rendersi conto che la collaborazione è l’unico strumento di vittoria è quanto mai impellente. Gli interessi nazionali europei sono stati affondati dalle azioni turche e russe più volte di quanti i nazionalisti possano e vogliano ammettere, di fatto incidendo pericolosamente sulla tenuta dell’Unione stessa (come si son gestiti i migranti lo annoveriamo nel decalogo delle sconfitte europee). Cipro è forse il prossimo campo di battaglia politico dove solo la comunione di intenti greco-franco-italiana potrebbe portare quelle che sono risorse assolutamente necessarie sotto il controllo europeo, così come anche la Libia e l’evoluzione corrente del conflitto a favore di GNA dimostra come ancora sia rilevante la presenza di attori stranieri in questi conflitti solitamente locali. Il fatto che la Turchia abbia cambiato l’evoluzione del conflitto tramite il suo massiccio intervento proprio in quella che sia Francia che Italia rivendicano come loro area operativa, è una superba débâcle che deve spingere gli europei a ripensare la propria politica estera in chiave comunitaria, cooperativa e non competitiva. Certo è che non sarà facile superare su questi ambiti le resistenze degli stati-nazione, propensi alla collaborazione quando questa si esprime al suo ritmo e sotto la sua egida. Chiaro è il caso francese con l’iniziativa europea di intervento (IEI o EI2), così come la presenza della NATO offre a molti uno scudo protettivo contro qualsiasi iniziativa europea che sia più di semplice coordinazione. Sconfiggere queste resistenze sarà necessario se si vorrà fornire una solida base per passare da una politica unionista ad una federale.

Note

[1Già nel 2017 con il tema degli Eurocorps ma anche in seguito con le firme di Domenico Moro e Michele Ballerin

[2Cfr. Lanfranchi G., A ‘bottom-up cooperations’ approach to European common defence policy, 27 novembre 2019, http://www.esthinktank.com/2019/11/27/a-bottom-up-cooperations-approach-to-european-common-defence-policy/

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom