Perché discriminare è controproducente

, di Antonio Longo

Perché discriminare è controproducente
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Il tema delle discriminazioni emerge sempre più, intersecandosi con le molteplici crisi che l’umanità sta attraversando. La storia ci mostra che nei periodi di profondo cambiamento degli assetti sociali, economici e politici – con conseguente crisi dei valori dominanti – si produce spesso un incremento delle forme di discriminazione tra i gruppi sociali o nazionali, sulla base di motivazioni quali la razza (presunta tale), la religione, l’immigrazione, la cultura, l’orientamento sessuale e altro ancora.

Nell’epoca trionfante in Europa dello stato-nazione la discriminazione era fortemente alimentata da un’equiparazione tra nazionalità e cittadinanza. Al cittadino erano riconosciuti i diritti in quanto membro di una comunità nazionale; gli altri erano “stranieri”, ai quali si potevano attribuire alcuni diritti solo se esplicitamente previsti da convenzioni bilaterali tra gli Stati.

Il processo di unificazione europea ha, via via, modificato questa impostazione, prima attribuendo diritti (e obblighi) ai cittadini nazionali sulla base della loro appartenenza ad uno spazio economico sovrannazionale (libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali). Poi, con il riconoscimento dei diritti politici a livello europeo (elettorato attivo e passivo per l’elezione del Parlamento europeo), ed infine con il riconoscimento della cittadinanza europea per chiunque abbia quella di uno Stato membro.

Un altro passo in avanti avviene con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (12 dicembre 2007), resa giuridicamente vincolante dal Trattato di Lisbona (art.6). La Carta “pone la persona al centro dell’azione dell’Unione”, creando “uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia” e assicurando “la libertà di stabilimento” (dal Preambolo della Carta).

I diritti sono ora riconosciuti alle “persone” in quanto tali, cioè in quanto titolari di valori indivisibili ed universali! A riprova della straordinaria novità della Carta, accanto ai tradizionali valori di libertà, uguaglianza e solidarietà, assurge ora un nuovissimo e primo valore della “persona”: quello della dignità umana (art. 1 della Carta), che è “inviolabile” e che “deve essere rispettata e tutelata”.

Ciò significa che la dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali, il cuore del sistema valoriale della società, il cui godimento “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future” (dal Preambolo della Carta).

La dignità umana, dunque, vale per tutti e non può pertanto subire alcun pregiudizio, neanche in caso di limitazione di un diritto. Ne consegue che ogni forma di discriminazione (per motivi razziali, religiosi, culturali, sessuali, politici o altro ancora) equivale a un mancato riconoscimento della dignità della persona.

Ad esempio, non rispettare il diritto, in generale, di migrare significa violare la dignità della persona, cui è negata una libertà individuale di movimento e di “socializzare in virtù del diritto al possesso comune della superficie della terra” (Emmanuel Kant, Per la pace perpetua, 1795). Le varie forme di discriminazione basate sulla religione e/o la cultura, violano la dignità umana, perché ledono il principio di libera espressione dello spirito, così come quelle sessuali comprimono la libertà e gli affetti delle persone.

Un deficit dello “stato di diritto” è pure violazione della dignità umana perché vanifica quei sistemi di giustizia che garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà di tutti, in modo imparziale e indipendente. I sistemi autoritari, discriminando, determinano un indebolimento della coesione sociale complessiva, cui reagiscono accentuando la spinta repressiva. Chi, nel corso della pandemia, si è preoccupato poco della dignità delle persone sta pagando ora i prezzi maggiori.

Al contrario, i sistemi politici che si sforzano di porre al centro la dignità della persona garantiscono una maggiore coesione sociale, che è essenziale per lo sviluppo (sostenibile). L’Unione Europea ha varato, giusto un anno fa, il programma NextGenEu, la cui filosofia è basata sull’intreccio tra sviluppo sostenibile e coesione sociale (e territoriale), riconoscendo così il loro legame. Infatti, l’integrazione di ogni forma di diversità rappresenta un vantaggio per la società: i gruppi sociali più innovativi sono quelli più eterogenei. La diversità sprigiona quelle nuove idee che possono consentire di superare l’impasse in cui i vecchi modelli politici (stato-nazione) sono precipitati.

È dunque sbagliato (anche economicamente) discriminare: migranti e minoranze di vario genere vanno incluse e integrate, rimuovendo le cause dell’emarginazione. Vale per l’Europa, ma anche per le nostre città, in cui l’incrocio di minoranze diverse è destinato ad aumentare. È errato allora porre la questione in termini di solo ordine pubblico o di mero assistenzialismo, come continua ad accadere, ad esempio, con i Sinti di Gallarate. Occorrono invece programmi di integrazione e di sviluppo. È responsabilità di tutte le forze politiche, economiche, sociali e culturali delle nostre città.

L’articolo è uscito in forma cartacea su «La Prealpina» l’8 luglio 2021.

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