Le Olimpiadi sono un evento alquanto particolare, colmo di competizioni di ogni tipo. Per quattro anni - o tre, quando c’è di mezzo una pandemia - la stragrande maggioranza della popolazione non assiste a una singola gara di windsurf, tiro al piattello, basket tre contro tre, equitazione (ma potremmo aggiungere anche atletica, ginnastica artistica o scherma), eppure una volta ogni quattro anni persino il dressage può diventare nazional-popolare.
C’è tuttavia bisogno di un elemento perché il dressage o il nuoto sincronizzato abbiano i loro quindici minuti di popolarità: un’italiana o un italiano che conquisti una medaglia. Potranno così avere una diretta tv su uno dei principali canali nazionali o riempire un titolo in prima pagina di un quotidiano (persino non sportivo!).
Ora una parentesi, prima di riprendere il filo del discorso. Non vogliamo con questo sminuire atleti di qualche specialità o veicolare il messaggio che ci siano sport maggiori e sport minori: ci si potrebbe al contrario augurare che le piroette alla trave conquistino lo spazio di qualche partita di calcio maschile, della Serie B quanto meno. Non è questo il punto, insomma, e d’altronde ci occupiamo qui di frivole polemiche, come il titolo stesso suggerisce.
Il punto è piuttosto - e qui torniamo a dove eravamo rimasti - perché alcune discipline passino in così breve tempo dall’anonimato al clamore, fino a tornare nell’anonimato. Il motivo sta appunto nell’orgoglio nazionale. Le venti, trenta, quaranta, cinquanta medaglie dell’Italia. Gli USA prima della Cina nel medagliere. Gli atleti del Paese ospitante che devono farsi largo il più possibile, affinché la propria nazione non sfiguri agli occhi del mondo. Se Alice D’Amato vince una medaglia d’oro e una di bronzo nella ginnastica artistica, assurge agli onori della cronaca. Se Lim Si-hyeon vince tre ori nel tiro con l’arco, nessuno o quasi in Italia si ricorderà di lei, perché è coreana.
Si dirà: è naturale che sia così, perché gli italiani non potranno che appassionarsi a un’atleta italiana. È davvero così?
Un’osservazione semplice. Il criterio adottato dalla Rai per stabilire quali competizioni trasmettere è uno: prima vengono le gare dove atleti e squadre italiane sono o possono andare a medaglia. Altri criteri si potrebbero adottare, a parità di ore trasmesse: gli sport più seguiti, se si vuole vendere più pubblicità; una distribuzione il più ampia possibile di sport, per equanimità; trasmettere solo le finali delle competizioni, al posto delle batterie dei 200 metri femminili su pista o una partita del girone di pallavolo maschile della nazionale italiana.
Così, tuttavia, non avviene: si predilige lo spirito nazionale. E, a chi è appassionato di uno sport dove gli atleti italiani non hanno speranze, non resta che pagare l’abbonamento di una piattaforma privata.
Eppure, a proposito di pagare, a pensarci bene anche il servizio pubblico dello Stato viene pagato dai cittadini, forzosamente (1,7 miliardi di euro versati dallo Stato alla Rai ogni anno, milione più milione meno). Lo Stato nazionale, quindi, obbliga i propri cittadini a finanziare un servizio che li induce a tifare gli atleti della propria nazione, rinvigorendo così lo Stato nazionale stesso. Dacché Stato vuol dire Istituzioni che in sé possono essere anche europee/globali (sovranazionali) o regionali/locali (subnazionali). Ma è l’elemento nazionale che è la ragion d’essere dello Stato nazionale italiano in quanto italiano, francese in quanto francese, eccetera.
D’altronde, è innegabile che eventi come le Olimpiadi non sono solo panem et circenses, ma hanno anche un notevole risvolto politico. Se lo sanno i Governi nazionali di Paesi democratici, figurarsi i regimi autoritari.
Tanto che gli atleti che possono scompaiono. Come Yaime Pérez, lanciatrice del disco cubana medaglia d’oro ai mondiali di atletica del 2019 e bronzo alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, che nel 2022 ha deciso di smettere di onorare il suo Paese, fermandosi negli USA appena finiti i campionati mondiali a Eugene, in Oregon. O competono per altre bandiere, come Cindy Ngamba, che a Parigi ha vinto una medaglia per il Team rifugiati nella categoria 75 kg del pugilato; lei, con cittadinanza camerunense, per il Camerun non può fare boxe perché al regime non va giù la sua omosessualità dichiarata.
Sono piccoli esempi di come la politica e il potere influenzino anche lo sport. Inducendo noi ignari spettatori a tifare una squadra italiana, con il sentimento di ostilità contro gli avversari messo davanti allo spirito di ammirazione verso un’impresa sportiva (e figuriamoci quando l’impresa da medaglia d’oro è di avversari francesi e l’argento di italiani). E costringendo gli atleti a competere per onorare il proprio Paese, in una gloria dove la nazionalità dell’atleta prevale sul suo nome e cognome. Tranne solo per pochi eletti: i Phelps, i Bolt.
Una soluzione su questo ci sarebbe: delle Olimpiadi dove l’appartenenza, se c’è, è per club professionali (una sorta di Real Madrid, Boston Celtics, Visma - Lease a Bike, per menzionare alcuni sport) e non per nazioni. Non sarebbe nulla di illogico.
Non dilunghiamoci però, prima di scandalizzare oltremodo.
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