Una conquista spaziale sotto il controllo americano?
Nonostante il volo di Thomas Pesquet faccia emergere l’immagine di un’Europa attiva nel settore spaziale, il progetto resta di SpaceX, azienda americana fondata da Elon Musk. L’imprenditore, che si è fatto un nome da diversi anni, soprattutto grazie all’azienda Tesla, viene ormai associato alla nuova impresa: il primo volo con equipaggio operato da una società privata. Lo scorso maggio, gli astronauti americani Bob Behnken e Doug Hurley si sono diretti verso l’ISS a bordo del razzo Falcon 9 di SpaceX. Questo evento mette in luce la rimonta degli Stati Uniti nella conquista dello spazio, sia tramite il coinvolgimento del settore privato – che fornisce un sostegno finanziario e tecnologico notevole – ma anche grazie a una ritrovata sovranità americana nel progetto.
Infatti, il razzo Falcon è stato lanciato dalla Florida, una prima storica dopo lo shuttle Atlantis nel 2011. “Nella storia della conquista dello spazio, il fatto di disporre di un accesso indipendente allo spazio per i propri astronauti rappresenta un elemento di sovranità”, spiega Jean-Yves Le Gall, presidente del Centre national d’études spatiales (CNES). Dal 2011, tutte le partenze degli astronauti americani per l’ISS avvenivano dal Kazakistan, a bordo delle Soyuz russe.
Il recupero delle redini nella conquista dello spazio non si limita all’esempio di Falcon 9, ma rientra in una tendenza sempre più marcata dalla Casa Bianca. Infatti, secondo la giornalista Agnès Vahramian, Donald Trump “ha fatto della riconquista dello spazio una priorità”, come dimostrano gli accordi Artemis. Presentati il 15 maggio 2020 dalla NASA, questi accordi prevedono nuovi lanci verso la Luna e l’installazione di una base nel 2024.
In quest’ottica, la NASA ha stabilito un quadro giuridico riguardante la conquista dello spazio. Alcuni principi esistenti sono stati riaffermati, come l’accordo sul salvataggio degli astronauti o la restituzione di oggetti lanciati nello spazio extra-atmosferico (previsti nell’accordo del 1968). Altri vanno a integrare gli accordi esistenti, come la protezione dei siti esplorati “con valore storico” o la pubblicazione di dati scientifici “al fine di garantire che il mondo intero possa beneficiare dei viaggi di esplorazione e scoperta di Artemis”. Tuttavia, fra questi nuovi punti, due temi vengono ancora dibattuti e destano l’attenzione della comunità internazionale: lo sfruttamento e l’appropriazione di risorse “extraterrestri” – più in particolare di risorse lunari – e la creazione di “zone di sicurezza”.
Per quanto riguarda il primo punto, due trattati dell’ONU fungono da riferimento in materia: il trattato sullo spazio del 1967, reso più specifico con il trattato sulla Luna del 1979. Secondo l’articolo 11 del trattato del 1979: “la Luna e le sue risorse naturali costituiscono patrimonio comune dell’umanità” e “la superficie e il sottosuolo della Luna non potranno diventare di proprietà di nessuno Stato, organizzazione internazionale intergovernativa o non governativa, organizzazioni nazionali, che abbiano o no la personalità giuridica, o di persone fisiche”. Tuttavia, come spiega Marco Ferrazzani, capo del Dipartimento di Servizi Legali dell’Agenzia spaziale europea: “il trattato sulla Luna viene preso sempre meno in considerazione”, in special modo dall’attuale inquilino della Casa Bianca: “il presidente americano lo dice chiaramente col decreto del 6 aprile. L’idea di instaurare un regime condiviso e multilaterale della Luna, come quello che esiste per l’Antartide, è respinta”.
Il decreto presidenziale appena menzionato è stato firmato il 6 aprile 2020 con lo scopo di “incoraggiare l’appoggio internazionale per il recupero e l’utilizzo delle risorse spaziali”. Il recupero di tali risorse è giustificato dal fatto che “lo spazio extra-atmosferico è un dominio dell’attività umana unico dal punto di vista giuridico e fisico”, di conseguenza “gli Stati Uniti non lo considerano come un bene comune mondiale”. Un altro punto di tensione è l’idea delle “zone di sicurezza” che mirano a “ridurre le interferenze o i conflitti tra operazioni rivali”. Nonostante queste zone non siano destinate a sottostare alla sovranità di alcuno, sottolinea Xavier Pasco, responsabile del polo “Espace” della Fondation pour la recherche stratégique (FRS): “vediamo emergere negli Stati Uniti una visione dello spazio quasi geografica. Andare nello spazio in modo più abitudinario [¼] porta a considerarlo secondo una logica quasi territoriale e cresce il bisogno di proteggerlo, perché lo spazio è visto come un’infrastruttura di interesse vitale.”
Gli accordi Artemis sconvolgono anche il vecchio consenso internazionale sulla conquista dello spazio. Per Pierre Barthélémy, giornalista del periodico Le Monde, Donald Trump “dà, dall’alto della sua carica come numero uno della prima potenza mondiale, il segnale di partenza per la corsa all’“oro lunare””. Ma questi accordi non vengono accolti in modo unanime in seno alla comunità internazionale, come dimostrano le parole di Dmitri Rogozine, amministratore delegato della Roscosmos (l’agenzia spaziale russa), pronunciate lo scorso 25 maggio: “in nessun caso accetteremo i tentativi di privatizzazione della Luna. Sono azioni illegali e contrarie al diritto internazionale”. Al di là del contenuto, anche il metodo non è stato apprezzato, ovvero il bilateralismo: “le agenzie spaziali che si uniscono alla NASA nel programma Artemis lo faranno traducendo in atto gli accordi bilaterali Artemis” ha affermato la NASA. Secondo Xavier Pasco, al contrario di russi e cinesi che cercano di “promuovere trattati internazionali vincolanti dal punto di vista giuridico”, gli Stati Uniti “preferiscono accordi politici che facciano nascere una sorta di club in cui i membri aderiscono alla loro visione”. Malgrado le critiche, gli Stati Uniti restano in una posizione di forza e impongono il proprio approccio intellettuale e giuridico sull’occupazione dello spazio: “danno il la, sono i maestri d’orchestra di tutta l’attività di esplorazione del Sistema Solare” ha sottolineato Xavier Pasco. Infatti, benché la Cina stia investendo miliardi di euro e cominciando a riportare numerosi successi – come il lancio avvenuto il 23 luglio 2020 di una sonda per Marte – deve ancora recuperare l’importante ritardo accumulato nel settore. Con investimenti altrettanto massicci, anche l’Europa occupa un posto importante. Ma può davvero posizionarsi di fronte al leader americano nella conquista dello spazio?
Malgrado un ritardo nella corsa, l’Europa prepara il proprio ritorno
Negli anni ’50, le attività spaziali prendono il via in piena Guerra Fredda, diventando nuovo motivo di sfida nella rivalità tra Stati Uniti e URSS. Bisognerà attendere una decina d’anni affinché l’Europa faccia a sua volta la propria apparizione, grazie alla Francia e al suo satellite A1 “Asterix”, il 26 novembre 1965, seguita dal Regno Unito, che lancia Prospero il 28 ottobre 1971. Ma questi due importanti passi avanti rimangono nazionali e non verranno mai visti come successi “europei”. Negli anni ’60, quando la conquista dello spazio assume una rilevanza sempre più grande, l’Europa decide di lanciarsi nella corsa. Perciò, nel 1964, vedono la luce due organizzazioni. La prima viene chiamata CECLES (Centre européen pour la construction de lanceurs d’engins spatiaux, anche conosciuta con la sigla inglese ELDO; in italiano Organizzazione europea per lo sviluppo di vettori) e deve mettere a punto il primo vettore europeo. A completare il tutto, il CERS (Conseil européen de recherches spatiales; in italiano Organizzazione europea per la ricerca nello spazio), che ha per obiettivo la creazione di satelliti e la loro applicazione. Tuttavia, il ritardo nello sviluppo del vettore Europa e i fallimenti dei lanci del vettore completo non fanno che accumularsi. Italia e Regno Unito decidono di uscire dal programma.
Di fronte alla constatazione di questo insuccesso, l’Europa ha scelto di adottare un organismo unico per concentrare gli sforzi. Il 30 maggio 1975, l’ESA o ASE (Agenzia spaziale europea) riunisce Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Italia, Belgio, Danimarca, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi e Svizzera. Se pure gli Stati si sono accordati su questo progetto europeo col fine di conferirgli una portata reale, l’ESA non ha sovranità su tutte le attività spaziali dei Paesi membri. Ogni Stato continua a portare avanti in parallelo i propri progetti, da solo o in associazione con Paesi europei o non europei. In più, benché l’ESA sia un’organizzazione europea, è indipendente dall’Europa comunitaria. Oggi l’agenzia spaziale è, col suo budget (6.680 milioni di euro nel 2020), la terza nel mondo dopo la NASA e l’agenzia spaziale cinese.
Al di là del budget stanziato, l’ESA ha saputo affermarsi grazie a progetti innovativi e significativi, come nel 2014 con due primi eventi storici. In primo luogo, in agosto la sonda Rosetta viene messa in orbita intorno alla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Poi, in novembre, il lander Philae atterra su quella stessa cometa (a più di 500 milioni di chilometri dalla Terra). L’Europa viene dunque vista dallo sguardo internazionale come un attore importante nell’esplorazione dello spazio, come dimostra la sua partecipazione all’ISS (Stazione Spaziale Internazionale) nel 2009, con Frank De Winne che diventa il primo astronauta europeo a essere nominato comandante dell’ISS in occasione della spedizione 21 (di solito americano o russo). Malgrado ciò, l’Europa fatica a imporsi come reale concorrente nella corsa allo spazio.
Per Jean-Yves Le Gall, presidente del Centre national d’études spatiales (CNES): “l’Europa si trova in alto nella classifica con Stati Uniti e Cina”, in quanto fa parte “dei leader spaziali, soprattutto in termini qualitativi”. Tra l’altro, giustifica questa leadership con il budget stanziato dagli Stati per questo settore: la Francia, per esempio, vi dedica “il secondo budget nel mondo dopo gli Stati Uniti. In America raggiunge i 50 euro all’anno per abitante, mentre in Francia è di 37 euro all’anno per abitante”. Ciò nonostante, numerosi analisti hanno mitigato questo bilancio lusinghiero, tra cui Arthur Sauzay, esperto di questioni spaziali all’Institut Montaigne, il quale considera che seppure “l’Europa continua a essere un grande attore economico dello spazio, da un punto di vista politico facciamo fatica ad affermarlo”, cosa che impone all’Europa di “restare in secondo piano” rispetto a Stati Uniti e Cina. Una delle ragioni principali che vengono tirate in causa è il “new space” o la comparsa del privato come motore della conquista dello spazio.
Infatti, i programmi promossi dall’ESA sono finanziati direttamente dai paesi membri. Sebbene siano state attivate collaborazioni per acquisire supporti finanziari, come con Thales o Airbus, l’Europa non riesce a reggere il confronto con gli omologhi americani e cinesi che beneficiano del sostegno di giganti del digitale: GAFA per il primo e BATX per il secondo. Perciò, secondo l’esperto di questioni spaziali all’Institut Montaigne: “la governance spaziale europea è stata a lungo un punto di forza con l’Agenzia spaziale europea, riuscendo ad assicurare una reale continuità dei progetti al di là delle alternanze politiche, al contrario della NASA. Il problema odierno è che il processo decisionale dell’ESA è lento, fattore che può rappresentare uno svantaggio quando si parla di accelerazione dello sviluppo del new space e degli attori privati, in special modo americani, che dispongono di capacità finanziarie considerevoli”. Clarisse Angelier, delegata generale dell’Association nationale de la Recherche et de la Technologie, insiste dunque sulla necessità di arruolare le industrie non spaziali “che ancora non conoscono i vantaggi derivabili dai servizi e prodotti spaziali”.
L’ANRT propone un “ecosistema europeo intersettoriale” costruito “intorno alla partecipazione del Cnes e dell’ESA”, che verrebbe “esteso oltre gli attori spaziali storici”. Stando alla delegata generale dell’associazione, “l’estensione a livello europeo può consentire di sviluppare un ecosistema sostenibile ed economicamente attrattivo sopra e intorno la Luna”, soprattutto se ci fosse una “federazione a livello europeo in modo da creare, in un primo momento, legami tra industrie e agenzie spaziali”. Ma oltre al problema degli investimenti privati si aggiunge anche una mancanza di unità europea nel settore. Anaïs Bouissou, per RTL, spiega che “di fronte ai rivali americani e cinesi, l’Europa è rimasta indietro in materia di conquista dello spazio, a causa dei mezzi più ridotti, ma anche per via di una mancanza di unità”. Benché l’ESA costituisca un buon esempio di cooperazione internazionale, quest’ultima sembra frenata da un budget privato carente e da un’indipendenza degli Stati membri che per la maggior parte dispongono della propria agenzia spaziale nazionale.
In ogni caso, l’Europa rimane in corsa e non ha intenzione di arrendersi. Cerca di guadagnare punti con i microsatelliti e il razzo Vega, testimone di una ripresa del Vecchio Continente. Dopo esser stato rimandato diverse volte, il lancio del razzo europeo Vega è infine avvenuto lo scorso 2 settembre al Centro spaziale guyanese (CSG) e ha permesso di posizionare in orbita una cinquantina di nano satelliti. Arianespace tenta così di imporsi sul mercato dei nano- e micro-satelliti, un mercato in piena espansione che va dalla ricerca scientifica allo sviluppo delle comunicazioni. E l’azienda ha già previsto il prossimo lancio per la metà di ottobre: “è un bel simbolo, dopo Ariane 5, e ora Vega, in ottobre ci sarà Soyuz; questa è la nostra famiglia di vettori”, ha commentato Stéphane Israël, amministratore delegato di Arianespace durante la missione Vega. Malgrado un mercato fortemente concorrenziale in cui ci si confronta con attori come SpaceX, l’Europa ha scelto di partecipare alla corsa e le prime battute sono di buon auspicio.
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