Era il 10 giugno 1979 quando una donna divenne la prima Presidente del Parlamento europeo. Si tratta di Simone Veil, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e figura centrale del femminismo francese. Una donna straordinaria, una guerriera, una paladina dei diritti – del sesso debole, ma non solo –, un’intellettuale e una libera pensatrice. Morta il 30 giugno 2017, ha lasciato un segno profondo nei cuori e nelle menti degli europei, giovani e meno giovani.
È stata il simbolo di un’Europa che ha saputo – e dovuto – rialzarsi dopo momenti drammatici. Ha rappresentato la forza di chi non si arrende mai, di chi lotta per i propri ideali, di chi incarna un’istituzione.
Non è un caso che la Veil sia stata non solo la prima donna eletta come Presidente del Parlamento con sede a Bruxelles, ma soprattutto che sia stata la prima Presidente del Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei.
Un ruolo che ha avuto un rilievo ancora più particolare se pensiamo al cosiddetto “deficit di democraticità”, un costante riferimento all’attuale configurazione dell’Unione. Dinanzi le lamentele che poche siano le sue istituzioni legittimate dal popolo e che esisterebbe un vero e proprio vulnus della rappresentanza – difficilmente sanabile secondo i più -, la scelta di una donna come prima guida democraticamente eletta di un organo di tale importanza è certamente significativa. Essa raffigura più di mille parole o espressioni di elogio, una scelta di campo netta e precisa: la scelta del futuro, di un mondo di parità di genere, di uguaglianza sostanziale e non solo formale, di possibilità.
Perché, quindi, celebrare Simone? Perché ricordarla oggi, in prossimità della Festa dell’Europa? Perché parlare di diversità e di unione, di fratellanza e solidarietà rammentando una figura del genere?
Forse per rimirare giorni lontani, fatti di discussioni animate e di politici al servizio della collettività?
Mi rifiuto di credere che l’unica cosa che una persona come la Veil possa, oggi, donare ai giovani europei sia un modello cui aspirare e un sogno cui pensare la notte prima di addormentarsi, prima che il buio dell’indifferenza o – peggio ancora – dell’accettazione cali su di noi. Da europeista e, soprattutto, da donna ritengo che il compito dei grandi del passato sia non solo quello di insegnare, con il loro esempio e con le loro virtù, il vivere civile, ma anche e soprattutto di spingere le nuove generazioni a superare se stesse, a sfidare i propri obiettivi, a mettersi in gioco e in discussione, sempre e comunque. Perché una vita senza lotta non può dire di essere vissuta.
Ed è una lotta – continua ed estenuante – quella per la parità di genere. Ed è combattuta anche sul suolo europeo.
Nonostante siano passati più di cinquant’anni da quando Simone Veil si aggirava per i corridoi di Bruxelles, la condizione femminile resta ancora uno degli obiettivi che l’Unione europea si è posta e il cui raggiungimento – pare – non possa essere dato per scontato. I diritti delle donne, infatti, costituiscono un terreno di scontro di non poco conto, un campo non facile su cui agire.
Diverse sono, non a caso, le proposte legislative dei diversi Paesi europei, volte ad introdurre delle “azioni positive” che possano riequilibrare i rapporti tra il genere maschile e femminile. Basti pensare, a tal proposito, a quanto recentemente è stato discusso – e si discute tutt’ora – in Italia in tema di “quote rosa”, interrogandosi sulla loro legittimità e/o opportunità.
Da parte mia, ho sempre creduto nella parità. Non mi sono io stessa mai sentita inferiore agli uomini con cui mi sono confrontata per un mero fatto genetico e ho avuto la fortuna di conoscere molte donne che mi hanno testimoniato – con il loro esempio e con la loro forza – che anche il “gentil sesso” può ottenere la parte migliore dei due mondi. Svariati membri della mia famiglia e diverse mie mentori e colleghe mi hanno dimostrato che pretendere dal proprio marito o compagno l’eguaglianza è possibile e, anzi, costituisce un dovere. Mi hanno fatto capire che essere lavoratrici e madri è una realtà e che non vi sono, a tal proposito, preclusioni o incompatibilità.
È l’esempio, dunque, che costituisce il faro di speranza cui le donne delle nuove generazioni devono guardare. Esse devono, quindi, fare propria una nuova visione: la visione di un mondo che cambia e che muta i suoi colori, grazie alla forza e alla determinazione di personaggi straordinari.
Essi, dunque, ci fanno un grande regalo: aprono la strada al progresso sociale, culturale e politico della società, facendosi interpreti di nuovi valori. È stata questa la grandezza di Simone Veil e di tutte le altre “madri dell’Europa”.
Ognuna di loro ha messo in luce ancora una volta, se mai ve ne fosse stato bisogno, che non è il genere a determinare chi o cosa siamo o possiamo essere, né in senso positivo né in senso negativo. Non è la nostra appartenenza ad un sesso o ad un altro a renderci migliori o peggiori governanti e politici. E questo già la Veil l’aveva ben compreso.
Forse l’aveva capito meglio di molte ragazze della contemporaneità, che si lamentano dell’ingiustizia di una cultura maschilista senza fare nulla per abbatterne gli stereotipi, senza lottare o impegnarsi per cambiare le cose ed essere – in tutto e per tutto – pari alle proprie controparti maschili.
Non è un caso che l’ex Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, avesse ricordato la prima Presidente dell’istituzione comunitaria da lui retta definendola come “la coscienza dell’Unione europea, un’attivista contro l’antisemitismo e una paladina dei diritti delle donne”. Parole forti ed evocative, per rammentare l’apporto di chi è passato, a buon diritto, alla storia.
Parole che, un giorno, potranno essere dedicate anche a chi, come Simone Veil, ha saputo farsi strada con competenza, intelligenza e forza d’animo in un mondo dominato da uomini. In un mondo senza quote di genere. In un mondo improntato alla vera parità: quella delle idee.
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