In Italia si sta svolgendo in questi giorni la quindicesima elezione del Presidente della Repubblica. Da quel 2015 che premiò come Capo dello Stato il siciliano, giudice della Corte Costituzionale, Sergio Mattarella, lo scenario politico è inesorabilmente cambiato. Già quella fu un’elezione particolare, arrivata in seguito alle dimissioni anticipate di Giorgio Napolitano che, a 88 anni, si era trovato ad affrontare il secondo mandato da Presidente forzato dall’irremovibilità di alcuni partiti e dalle scelte sciagurate di altri. Già dal suo secondo discorso di insediamento era noto che questo non avrebbe ricoperto la carica più alta dello Stato di nuovo per un intero settennato, ma che sarebbe rimasto al Quirinale fin tanto che si sarebbe accasato un Governo riformista e che quei partiti che avevano compiuto “contrapposizioni, lentezze, calcoli di convenienze, tatticismi e strumentalismi” sarebbero stati abbastanza maturi da eleggere un Presidente rappresentante del Paese e non delle loro esigenze.
Quella ritrovata maturità portò al Colle un uomo non affiliato ad alcun partito, un uomo in grado di far ragionare gli schieramenti in disaccordo, quando serve, anche con il pugno duro, ma soprattutto in grado di dare fiducia al popolo nei momenti più duri. Un uomo, per certi versi, molto simile a quello che da un anno occupa un’altra poltrona importante delle Istituzioni, quella del Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Alle prime dichiarazioni di Mattarella sul post mandato, quelle rivolte a dei bambini di una scuola primaria di Roma, in cui il Presidente chiudeva a una rielezione perché “vecchio e bisognoso di riposarsi”, fu proprio il nome di Draghi a essere immediatamente lanciato come quello di suo successore. Meno di un anno dopo, con i fondi del Next Generation EU che devono essere salvaguardati e la pandemia ancora lontana dalla sua conclusione, pensando al bene del Paese tale ipotesi pare sfumare. E con i dissidi sui nomi da candidare tra i cosiddetti grandi elettori sembra di essere tornati a quella seconda elezione di Napolitano, a un periodo di confusione politica, a un periodo che si credeva appartenere al passato e si sperava superato. Come la Nazionale italiana di calcio, che riemerge dalle tenebre con un’ottima prestazione ai campionati europei del 2016 per poi ricadere malamente non qualificandosi ai mondiali del 2018, la classe politica del Bel Paese oggi rischia di dimenticare quella crescita compiuta, trattando con superficialità questa elezione, lavandosene le mani e rieleggendo quel grande uomo che non ha le forze di reggere altri sette anni di responsabilità.
Eppure, la colpevolizzazione dei partiti ha un limite. A quanto dicono i sondaggi, spettasse agli italiani votare, gran parte di questi sceglierebbe a occhi chiusi il Presidente uscente o il Presidente del Consiglio in carica. Il ruolo di Capo dello Stato, spesso limitato a discorsi istituzionali e brevi comunicazioni alle Camere, ha assunto negli ultimi anni un senso di importanza che solo nel primo periodo repubblicano e al tramonto degli anni di piombo aveva avuto. Ai cittadini, anche a quelli più diffidenti dalla politica, brillano gli occhi quando si nomina il garante della Costituzione, e secondo quanto riportano LaPolis e Demos, il 74% di questi vorrebbe votarlo personalmente.
Il desiderio di presidenzialismo è un sentimento umano. Tanto è complicato sentirsi rappresentati da un simbolo o da una posizione - specialmente quando non si vive appieno la politica - quanto è semplice legarsi a una persona. Ciò è risultato chiaro alle compagini degli ultimi trent’anni, non solo in Italia, dove comunque ottiene sempre più rilevanza il personalismo - si pensi a quanti, alle elezioni politiche, dichiarino di votare Meloni, Salvini, Renzi o Calenda anche quando questi nomi non compaiono nel seggio - ma anche nel Regno Unito, con il partito prima di May, poi di Johnson e quello di Corbin, in Austria, o nei Paesi Bassi con quello di Rutte. Insomma, seppur non nelle fondamenta, il venir meno della forma di governo dei Paesi europei in favore del modello francese o statunitense ha preso il largo, con la peculiarità che il nome che si indica lo si spinge verso la più alta carica dell’esecutivo, non dello Stato. E le differenze di compiti assegnati alle due sono ampie.
In una Repubblica parlamentare, com’è quella italiana, il Presidente del Consiglio è responsabile del Governo, delle politiche da esso attuate e del lavoro dei Ministri, il Presidente della Repubblica svolge ruolo di rappresentanza, di ordine e di imparzialità. I poteri di entrambe le cariche sono stabiliti dalla Costituzione, quelli del Capo dello Stato, per dirlo con le parole di chi lo fu per secondo nella storia repubblicana, Luigi Einaudi, si possono riassumere in “consigliare, incoraggiare, avvertire”.
È insomma ben chiaro che il ruolo si dissoci parecchio da ideologia politica o linea di partito. Dunque, qualora ipoteticamente i cittadini si trovassero a scegliere l’erede di Mattarella, sapendo i criteri che questo deve rispettare, si troverebbero ben più in difficoltà che nelle elezioni politiche. Non potrebbero esserci candidature, come ci sono invece state nei sondaggi in cui questi si sono espressi. Con carta e penna dovrebbero indicare un nome tra quei milioni di italiani che hanno oltrepassato i cinquant’anni di età e, siccome il ruolo sarebbe, come detto, di rappresentanza del popolo, si incrocerebbero le dita che la maggior parte di quei pizzini indichino la stessa persona. Atene ha senz’altro contribuito all’evoluzione dell’essere umano, ma non con la democrazia diretta. Quella, fuori dall’acropoli, è davvero un gran casino.
Tornando al presidenzialismo “di secondo ordine”, quello inerente al Governo, se manca di effettiva applicazione in Italia, dove svolge ruolo fondamentale - guarda caso - proprio il Presidente della Repubblica attraverso l’attribuzione dell’incarico, potrebbe trovare terreno fertile in Europa. Notoriamente, un Governo dell’Unione europea non esiste, ma qualora la Commissione acquisisse maggiore legittimità democratica, questa non avrebbe motivo per non essere considerata come tale.
Da questo pensiero si sviluppò nel 2014 il meccanismo degli Spitzenkandidaten. Un sistema per cui, alle elezioni europee, la croce sul simbolo di un partito corrispondeva sia alla spinta verso l’emiciclo di Strasburgo dei rispettivi candidati che a quella verso il ruolo di Presidente della Commissione della persona designata dall’eurogruppo cui il partito appartiene. Jean-Claude Juncker, lussemburghese del Partito Popolare Europeo, svolse per cinque anni il ruolo di capo dell’esecutivo europeo proprio con questo mezzo. Nel 2019 l’esperimento non fu ripetuto, tant’è che a occupare il posto che fu prima di Juncker non è oggi Manfred Weber, Presidente del gruppo vincitore delle elezioni, ma Ursula von der Leyen. La scusa ufficiale fu quella che tale sistema simil-presidenzialistico non aveva aiutato a coinvolgere nel dibattito e nel processo di integrazione europeo più cittadini di prima. In altre parole, che la auspicata rappresentanza degli europei in un essere umano anziché in un partito o un gruppo - quella che a livello nazionale pare esistere - non si era in questo caso verificata.
Un ragionamento semplicistico. Le elezioni europee peccano per una serie di aspetti che, sebbene palesi, si finge di non vedere. Innanzitutto, non tutti gli eurogruppi sono rappresentati in ognuno dei ventisette Stati membri; alle scorse elezioni, ad esempio, non figuravano partiti di Renew Europe a Cipro, come non ce ne erano di ECR in Romania. In più, alcuni partiti dichiarano solo dopo il voto a quale gruppo intendono aderire. E ancora, sembra non sia un problema che esistano i non iscritti, ossia la fetta accomunante i partiti - anche molto diversi tra loro - che non si riconoscono, o non trovano gradimento, in alcuno dei gruppi. Infine, in alcune delle campagne elettorali immediatamente precedenti alle elezioni dell’Europarlamento vengono proposte idee e soluzioni che nulla hanno a che fare con l’operato comunitario, a dimostrazione che la difficile connessione dei cittadini all’Europa non è meramente colpa loro.
Con tutta questa carne al fuoco, bocciare così duramente l’idea degli Spitzenkandidaten non è possibile. La strada per un rafforzamento della democrazia europea passa da una maggiore attenzione al Parlamento europeo e alle sue elezioni come dal meccanismo che soddisferebbe il bisogno dei cittadini di sentirsi simboleggiati il più possibile dal Presidente della Commissione. Quella voglia di presidenzialismo è saziabile proprio qui. In Europa.
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