Un conflitto così vicino alle porte di quella che consideriamo casa che ha ovviamente attirato le attenzioni di attori politici e sociali, economici, stakeholder, del cittadino medio. Che sia per mera omofilia o che invece sia semplice pragmatismo per le conseguenze visibili e tangibili che sta avendo tale conflitto sul blocco occidentale – a partire dalle sfide politiche nazionali, il prezzo dei carburanti in risalita per dirne qualcuna – l’Ucraina si è garantita una presenza fissa sui canali media nazionali, internazionali, e su quelle piattaforme a metà che cavalcano l’onda del momento per fornire a volte informazione, dall’altro fake news sparpagliate malamente.
Eppure, l’Ucraina non è l’unico conflitto che oggi imperversa nel mondo. Non è nemmeno l’unico ad influenzare l’Unione Europea e i suoi stati membri. Il Global Conlict Tracker del Council of Foreign Relations segnala, ad oggi 15 giugno 2022, circa 27 conflitti sparpagliati per il mondo. Certamente, il CFR ha un accento molto spinto sulla rilevanza di questi conflitti per la geopolitica americana. Nonostante ciò, ognuno di quei pallini gialli visibili sulla mappa e sparpagliati per il globo terrestre nella sua ricostruzione di Mercatore, sono crisi sviluppatesi nel corso degli anni, che hanno raggiunto una soglia quasi esplosiva e che si pongono come – non meno dell’Ucraina – sfide a cui pensare e su cui riflettere.
In questo caso, non parliamo meramente di sfide di tipo militare-politico. Parliamo anche di alcune crisi scatenate da un lato dalla sempre più precaria situazione climatica, dall’altro anche da pandemie che rimangono coperte, nascoste, agli occhi del grande pubblico.
Su quest’ultimo lato, non è pensabile non riflettere su un hotspot che desta particolari preoccupazioni, ovvero la Repubblica Democratica del Congo. Se da un lato sta affrontando le conseguenze di un insorgere di polio, il cui ultimo aggiornamento da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità risaliva a circa tre mesi fa, ancora più preoccupanti sono i recenti scontri insorti con il vicino Rwanda.
Il decennale scontro tra i due stati africani sembra avere trovato ulteriormente nuova linfa vitale, con il Rwanda accusato dal Congo di supportare i ribelli dell’M23, di cui le notizie più recenti danno certa la conquista di città nel territorio della Repubblica Democratica. Un paese che è quindi stato colpito non solo dalla pandemia di COVID-19 come il resto del pianeta, ma anche da quella di polio – dopo l’insorgere anche dell’ebola -, dalla devastazione portata dalle locuste in discesa dal Corno d’Africa e infine dal riscaldamento globale il cui impatto, nella zona circostante l’equatore, inizia a diventare sempre meno gestibile.
Perché, ci si potrebbe chiedere, la Repubblica Democratica del Congo dovrebbe attirare la nostra attenzione? Perché, come l’ISPI ci ricorda qui, la RDC è una miniera di minerali rari che hanno attirato compagnie come la Rio Tinto – di cui forse voi affezionati lettori ricorderete la presenza in una questione balcanica. Minerali rari necessari per quella transizione energetica e sostenibile tanto voluta e tanto ricercata dai ricchi paesi occidentali e non solo. Transizione sostenibile, almeno per noi, che costa sui paesi ricchi di materie prime in termini di sostenibilità economica, ambientale, e costa vite umane – sia per le condizioni disumane di lavoro, che per le instabilità politiche che seguono di solito i great game(s) delle potenze mondiali.
Cina, Europa, USA, e anche la Russia, hanno diretto i loro occhi tanto a nazioni come il Congo che alla Repubblica Centroafricana, così come ai paesi del delta del Niger, un altro punto caldo del pianeta in cui l’Europa ha tanto qualche responsabilità che qualche merito. La passata Operazione Barkhane di parigina matrice è stato un tentativo, abbastanza debole – e non per volontà di Parigi, ma per le sue debolezze strutturali-strategiche – che hanno visto da un lato un rinnovato intervento europeo. Che ha però anche messo in luce una serie di debolezze strutturali dei potenziali interventi militari sotto l’egida di Bruxelles, in scenari non solo militarmente complessi ma anche politicamente densi di correnti e partiti in perenne scontro, in cui diviene necessario tanto il martello di una forza armata per sostenere la lotta contro gruppi terroristici – tra cui quelli affiliati al vecchio Califfato Islamico, che allo stesso tempo interventi di natura socio-politica ed economica tesi a eliminare le radici delle affiliazioni a tali conflitti. Questo, più facile a dirsi che a farsi.
Mentre quindi l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica è stata tesa a concentrarsi sul conflitto ucraino – e ciò, con merito anche – bisogna anche riportare parte di tale attenzione all’insorgere di nuovi teatri di scontro, in particolare in Africa, che hanno conseguenze chiare e pesanti per l’Unione Europea. Parlando pragmaticamente, senza l’Africa non sarà possibile nessuna transizione energetica così come sognata in Europa, nei suoi proclami come la recente decisione di bandire la vendita di auto a motore diesel dal 2035, né tantomeno all’interno dei grandi disegni del Recovery Plan.
Non solo, ma più instabilità in Africa si traduce in nuovi flussi migratori, in fuga tanto dai conflitti che dai non meno devastanti e letali effetti di malattie e crisi climatiche. Più ci si sforza di guardare altrove, sempre meno abitabili intere aree del continente diventeranno, costringendo con sempre più forza e disperazione grossi gruppi di popolazione a doversi spostare per non morire di carestia o sete.
Potenze come gli Stati Uniti, Cina e Russia hanno da tempo puntato i loro occhi su quello che potrebbe essere il tesoro dell’era digitale, in termini di terre rare soprattutto. I russi in Centro Africa, con la fidata Wagner, hanno messo in luce un modus operandi non nuovo per il Cremlino, di cui esempi se ne sono visti tanto in Libia che in Siria.
La Cina, d’altro canto, continua a stringere accordi su accordi con le potenze africane ma anche con organismi multilaterali quali l’Unione Africana, di cui ricordiamo la sede è stata proprio finanziata da Pechino. Le infrastrutture costruite in giro per il continente, l’acquisto di porti e di lotti di terreni, fanno parte di una strategia a lungo termine cinese che da un lato porta a una colonizzazione gentile delle aree interessanti dal punto di vista economica, ma dall’altro stringe a doppio nodo le relazioni tra le nazioni africane e il gigante asiatico, con le prime strettamente legate proprio a quegli investimenti per far fronte alle proprie necessità di crescita.
L’Europa non è rimasta immobile nelle sue relazioni con l’Africa e i suoi paesi, come dimostrano il fatto che sia ancora il principale sponsor di fondi alla cooperazione e allo sviluppo, aggirandosi su cifre intorno i 30 miliardi di euro esclusivamente per l’Africa Sub-Sahariana, citando uno dei tanti strumenti di cui l’Unione Europea si è fornita nel corso del tempo.
C’è però da rendere tali partnership strategiche e non mere manovre di helicopter money, un ripulirsi il viso verso le nazioni africane verso cui, poi, le compagnie europee tendono ad allungare i propri arti. È naturale che vi sia un interesse economico, ancora di più vista la centralità dell’Africa all’interno della scacchiera economica futura grazie alle terre rare presenti.
Diviene però necessaria una strategia che sia anche una partnership, per creare un modello di sviluppo in seno alle relazioni europee-africane che si muova su binari diversi da quello cinese o anche da quello americano, con le sue basi di droni e di lotte al terrore diffuse lungo le coste sud-ovest. Una strategia che veda un po’ una uscita da quelle logiche neo-imperiali e neo-coloniali in cui l’Africa è una repository di minerali, di terra, di cibo e di tutto ciò che è possibile saccheggiare.
Ripetere con le miniere di litio gli errori commessi con le miniere di uranio e quelle di rame, di ferro e carbone, sarebbe un colpo fatale a qualsiasi aspettativa verso un futuro diverso, sia in un’ottica post-pandemia globale, che in un’ottica di reale cambiamento sistemico per una reale transizione sostenibile. Perché una città europea pulita non può valere di più dell’inquinamento che pratiche minerarie scorrette possono generare in Congo, o in Centrafrica.
D’altro canto, l’unico modo per approcciare tale cambiamento è con un disegno preciso dei passi da compiere e una entità capace di gestire dei rapporti bilaterali con fermezza e forza. Serve, per dirla chiaramente, la presenza di una entità federale europea che disponga degli strumenti economici, politici e di sicurezza che fanno di uno stato anche un sovrano e quindi anche un ente capace di dialogare e di discutere, di scendere a compromessi e di non farlo.
La competizione con la Cina, la Russia e gli Stati Uniti impongono un cambio di strategia a livello europee. Le dipendenze dal gas russo hanno già costretto governi come quello italiano a smuoversi, nuovamente, verso partner quali l’Algeria e a muovere nuovi occhi verso una nazione come la Libia dove la crisi non è mai finita dalla caduta di Gheddafi. Già ristabilizzare il Nord Africa mediterraneo sarebbe, per l’Unione Europeo, un passo in avanti.
Abbiamo citato qui solo l’Africa, mettendo in luce come i conflitti che esplodono in questo continente diventino poi riflesso di crisi anche in Europa e non solo. Non è solo però lì che è possibile osservare l’insorgere di conflittualità e di crisi, sanitarie e climatiche. Anche in Sud-Est Asiatico e in America Meridionale si sono aperti e si mantengono nuovi scenari di crisi che meritano l’attenzione europea, in un interesse da un lato pragmatico – per il suo insorgere come playergeopolitico – ma anche banalmente morale, per rendere vere le parole con cui organi, stati e persone tendono a riempirsi la bocca, come sostenibilità e transizione, che richiedono dei cambi di paradigma a cui, oggi, ancora non è visibile scia né traccia.
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