Riguardo l’intersezionalità delle politiche estere femministe e il pensiero federalista

Approfondimenti da uno studio sul campo riguardo il ruolo dell’Unione europea nella promozione di Donne, Pace e Sicurezza in Armenia

, di Melanie Thut, Trad. da Francesca Chiara Pandolfi

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Riguardo l'intersezionalità delle politiche estere femministe e il pensiero federalista
Fonte: Vista dal Monte Ararat dalla Cascata di Yerevan, foto: Melanie Thut

Questo articolo è parte del “Feminist Federalist Project”, una serie iniziata da attiviste e attivisti federalisti con lo scopo di esplorare le relazioni intersezionali tra il femminismo e il pensiero federalista. Questo articolo è basato sulla tesi di laurea magistrale che l’autrice ha scritto presso il Collegio d’Europa di Natolin, la quale ha ricevuto il premio come tesi più eccezionale dal Presidente della Politica di Vicinato 2023 / 2024.

L’uguaglianza di genere e la promozione della pace non sono per l’Unione Europea meri ideali, sanciti dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona - questi dovrebbero essere piuttosto principi guida che danno forma alle sue politiche interne ed estere. In linea con questo, l’UE ha fatto un grande passo in avanti nel 2008, adottando la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, conosciuto come il programma “Donne, pace e sicurezza” (DPS). Questo quadro esalta la protezione e l’emancipazione di donne e ragazze nelle zone di conflitto, richiedendo la loro significativa partecipazione all’interno dei negoziati di pace, nella ricostruzione successiva ai conflitti e negli impegni per prevenire violenze future. Il programma DPS rappresenta una parte del più ampio caambiamento verificatosi nei confronti di una politica estera femminista - concetto che si sta affermando all’interno dell’UE. Paesi come Spagna, Germania, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno tentato di abbracciare questo approccio, mentre altri invece stanno seguendo l’esempio in modi più velati.

Nel quadro della mia tesi magistrale, ho suddiviso queste questioni e indagato fino a che punto l’UE sta riuscendo a promuovere i principi del programma DPS nel caso specifico dell’Armenia, un paese vicino dell’UE che è stato impegnato in un conflitto militare al confine con il vicino Azerbaijan per oltre 30 anni. Dal momento che l’UE ha storicamente tentato di agire come mediatorice di pace per i conflitti territoriali post sovietici, cercando allo stesso tempo di europeizzare i potenziali nuovi stati membri attraverso il suo “potere normativo”, ho voluto portare avanti una ricerca su come questo viene messo in pratica sul campo. Per questo impegno sono stata a Erevan nella primavera del 2024 e ho condotto interviste con attori dell’UE, policy makers e politici armeni, così come con organizzazioni della società civile. Lo scopo di questo articolo è quindi di esplorare come i principi fondamentali di una potenziale politica estera femminista dell’UE possano andare d’accardo con le visioni federaliste per l’Europa e come il caso di studio dell’Armenia presenti delle carenze dilaganti in questo senso.

La fondazione di una Politica Estera Femminista e il Programma Donne, Pace e Sicurezza

Il concetto di Politica Estera Femminista (FEP) è emerso ponendo le sue basi sui risultati storici dell’attivismo femminista come Il congresso di Pace delle Donne, tenutosi all’Aja nel 1915 o a Zurigo nel 1919, e la successiva fondazione della Lega Internazionale delle Donne per la Pace la Libertà (DILPL). Pilastri importanti per ciò sono i documenti delle Nazioni Unite “Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne” (1979) “Piattaforma di azione di Pechino” (1995) e la Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle nazioni unite riguardo “Donne, Pace e Sicurezza” (2000) insieme alle sue nove risoluzioni successive.

Il concetto di FEP è in uno stato di continua evoluzione, modellato dai riscontri provenienti sia dal mondo accademico che dall’implementazione pratica dei suoi principi. Secondo Thomson, la politica estera femminista può essere definita come:

“[...] La politica di uno stato che stabilisce le proprie interazioni con altri stati, così come con movimenti e attori non statali, in modo da dare priorità a pace, uguaglianza di genere e integrità ambientale; racchiude, promuove e protegge i diritti umani di tutte e tutti; cerca di decostruire le strutture di potere coloniali, razziste, patriarcali e dominate da uomini; e alloca risorse significative, inclusa la ricerca, per raggiungere questa visione.”

È cruciale riconoscere che il termine “femminista” è intersezionale e comprende una moltitudine di gruppi marginazzati all’interno della società, estendendosi al di là della tradizionale definizione di donne. Inoltre, il concetto di “sicurezza femminista” è un concetto chiave. Questo implica che l’assenza di conflitti non rappresenta necessariamente sicurezza per i gruppi marginalizzati, dal momento che la violenza continua a prevalere. La sicurezza è intesa come un concetto che va al di là di quello convenzionale di sicurezza “hard” dello Stato nazionale, comprendendo un concetto più ampio di sicurezza “soft” per tutti gli individui all’interno della loro vita quotidiana. Ciò comprende l’assenza di dinamicità del potere, uguale accesso alle risorse, l’assenza di fame, povertà e trattamenti ingiusti, collettivamente definita “pace positiva". Per raggiungere la pace sostanziale è necessario indirizzare le cause di fondo della violenza “strutturale”, la quale si estende al di là dell’ambito dei conflitti violenti e sorge dalle disuguaglianze sostanziali e dalla distribuzione di potere e risorse ineguali. Ciò può essere raggiunto attraverso l’implemento di strategie di prevenzione del conflitto e di costruzione della pace.

Innanzitutto, la dichiarazione ufficiale inaugurale della “politica estera femminista” è stata fatta nel 2014 dalla Ministra degli Esteri dell’epoca Margot Wallstrom. Nonostante il ritiro ufficiale dalla FEP da parte del nuovo governo nel 2022, l’approccio delle 3R rimane una base importante per le successive strategie di FEP. Le tre “R” rappresentano i “diritti” (rights) di donne e ragazze e la lotta contro tutte le forme di violenza contro di loro, la “rappresentazione” delle donne a tutti i livelli a cui vengono prese le decisioni e l’allocazione di “risorse*” necessarie richieste per raggiungere questi obiettivi. La Svezia è stata seguita da Canada (2017), Francia (2018), Lussemburgo (2019), Messico (2020), Spagna (2021), Libia (2021), Germania (2021), Cile (2022) e Paesi Bassi (2022) come altri paesi pionieri. Belgio e Cipro si apprestano a seguire l’esempio a breve, mentre paesi come la Finlandia e la Danimarca aderiscono a questi principi senza esplicitamente identificarsi come tale. In ogni caso bisogna dire che questa lista è dinamica, con paesi che ritirano tale politica a causa dei cambiamenti di governo.

L’UE in relazione a Donne, Pace e Sicurezza

Se ci si chiede in quale misura l’UE abbia fatto avanzare alcuni elementi della FEP, un buon punto di partenza è il suo allineamento con l’agenda DPS. Questo impegno è riflesso nel Piano d’Azione dell’UE riguardo a Donne, Pace e Sicurezza per il 2019 - 2024. Il piano sottolinea sei obiettivi chiave: prevenzione, protezione, assistenza, ricostruzione, partecipazione e leadership attraverso l’integrazione di genere. Per ognuna di queste priorità, l’UE ha stabilito criteri, indicatori e azioni specifiche - applicando concretamente i principi e mettendo in chiaro che l’uguaglianza di genere e la costruzione della pace vanno di pari passo. In prima linea in questi sviluppi c’è il Parlamento Europeo, che ha pubblicato studi sugli approcci alla FEP per l’UE nel 2020. Nonostante la Politica Estera e di Sicurezza non sia una competenza esclusiva dell’UE, nel suo vicinato sono stati adottati una serie di “meccanismi di sicurezza soft”, come i due progetti EU4Peace (EU per la pace) e EU4Dialogue (EU per il dialogo). L’UE ha inoltre nominato nel 2003 un “Rappresentante speciale per il Sud Caucaso”, il cui mandato include la risoluzione pacifica dei conflitti nella regione, la prevenzione dei conflitti e la promozione del ritorno di persone sfollate interne, l’azione come mediatore neutrale nel conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaijan e l’inizio di una missione civile in Armenia denominata EUMA. In quanto parte del Piano di Azione di Genere, il DPS è stato posto al centro e allo stesso tempo sono state implementate risorse finanziarie e umane nominalmente speciali, punti focali di genere nelle delegazioni UE, e meccanismi di monitoraggio.

Eindrücke vom Forschungsaufenthalt in Armenien
Foto: Melanie Thut

Impressioni dalla ricerca durante la permanenza in Armenia, foto: Melanie Thut

Il caso dell’Armenia

Insieme ad altri studi, il mio campo di ricerca in Armenia ha rivelato una carenza nelle aspirazioni dell’UE come attrice di pace. Il conflitto del Nagorno-Karabakh risale alle politiche territoriali sovietiche degli anni ‘20, quando la regione, casa sia degli Armeni che degli Azerbaigiani, era posta sotto il controllo dell’Azerbaigian. Nel 1988, nel mezzo del collasso dell’Unione Sovietica, il Nagorno-Karabakh votò per unirsi all’Armenia, scintilla di violenze e sfollamento di massa.

In seguito alla brutale guerra avvenuta dal 1992 al 1994, l’Armenia ha sequestrato il Nagorno-Karabakh e le aree circostanti, creando l’autoproclamata Repubblica di Artsakh. Molti Azeri furono espulsi dalla regione. La regione fu lasciata nel limbo da un fragile cessate il fuoco negoziato dalla Russia, ma le tensioni non si sono mai allentate. In anni recenti si è assistiti alle offensive lanciate dall’Azerbaigian nel 2016, 2020 e nel 2023 per reclamare gradualmente i territori. Nel Settembre del 2023, l’Azerbaigian ha ripreso interamente il controllo del Nagorno-Karabakh, innescando l’esodo di all’incirca 100.000 persone dell’etnia armena. Oggi, le dispute riguardo i confini e i corridoi proposti continuano ad alimentare l’instabilità. L’equilibrio tra l’integrità territoriale e l’autodeterminazione rimane il cuore dell’irrisolto conflitto.

Il continuo conflitto tra Armenia e Azerbaigian ha afflitto profondamente vari gruppi di donne Armene: rifugiate dagli anni ‘90, tra il 2016 e il 2022 e dal 2023; donne che vivono alle regioni di confine; leaders femminili escluse dai colloqui di pace. Le donne del Nagorno-Karabakh (Artsakh) hanno affrontato una vita in società militarizzate e patriarcali, dove lo status sociale spesso dipendeva dai parenti maschi. Lo spostamento ha causato gravi difficoltà economiche, un accesso limitato ai diritti legati e isolamento sociale, soprattutto dal momento che le donne Artsakh erano percepite come più conservative in confronto a quelle locali. I primi gruppi di rifugiate e rifugiati degli anni ‘90 rimangono scarsamente integrati e spesso vivono in condizioni precarie. Le rifugiate e i rifugiati più recenti invece, in particolar modo donne e bambini della guerra del 2020, hanno subito carenze alimentari, traumi psicologici e rischi come il sesso di sopravvivenza a causa del blocco del Corridoio di Lachin.

L’ultima ondata nel 2023, che ha riguardato 100.000 Armeni e Armene, esponendo donne anziane a una maggiore vulnerabilità. L’aumento dei tassi di violenza di genere e le difficoltà ad integrarsi nella società armena hanno spinto molte donne a prendere in considerazione l’idea di emigrare. Anche le comunità di frontiera affrontano un peggioramento dell’insicurezza, difficoltà economiche e l’aumento dei rischi per le donne, alcune delle quali hanno persino abbandonato le attività agricole. Le organizzazioni della società civile evidenziano il bisogno urgente di un migliore accesso al mercato del lavoro, al supporto psicologico e a rifugi di genere sensibili per affrontare la crescente crisi.

Mentre lo stesso governo armeno ha implementato alcune misure all’interno del programma DPS, l’intervento dell’UE per la promozione di DPS in Armenia è visto tanto rilevante quanto inconsistente. L’UE si è impegnata in iniziative per la parità di genere e la costruzione della pace, ma la sua influenza è stata limitata da fattori politici, soprattutto durante le prime risoluzioni del conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Il processo decisionale è frammentato tra Bruxelles e Yerevan, limitando l’impatto locale. Mentre alcuni gruppi della società civile lodano le strutture dei progetti, per altri è difficile accedere ai finanziamenti e i temi chiave di DPS sono spesso messi da parte. Gli sforzi per coinvolgere le donne locali devono affrontare barriere culturali e sfide linguistiche. Sia il governo che la società civile apprezzano il sostegno dell’UE, in particolare in settori come i piani d’azione di genere e i centri di risorse per le donne. Tuttavia, alcuni interlocutori hanno sostenuto che i valori occidentali potrebbero non essere in linea con i contesti armeni locali. Gli sforzi dell’UE sono considerati cruciali, ma necessitano di un ulteriore allineamento con la realtà e la cultura armena per avere un impatto maggiore.

Nonostante alcuni sforzi notevoli, l’UE ha faticato a garantire una partecipazione significativa delle donne ai processi di pace. Pur avendo influenzato la legislazione sulla parità di genere e incoraggiato il coinvolgimento delle donne nel processo decisionale a livello locale, questi progressi non si sono tradotti in una rappresentanza sostanziale nei negoziati formali. Nel campo della prevenzione dei conflitti, i progressi sono stati spesso indiretti, soprattutto attraverso iniziative come EU4Dialogue (UE per il dialogo). Tuttavia, la missione UE 2023 ha segnato un cambiamento verso un impegno più diretto, in particolare nel rafforzamento della sicurezza delle frontiere. Per quanto riguarda la protezione, gli investimenti dell’UE - come il sostegno alle case di accoglienza per le donne e la presenza fisica nelle regioni vulnerabili - hanno portato un sollievo a breve termine, ma questi sforzi non riescono ad affrontare le radici strutturali della violenza di genere. Nel frattempo, nell’ambito dei soccorsi e della ripresa, l’assistenza dell’UE è rimasta in gran parte di portata generale, senza una strategia mirata per le donne rifugiate. Questo approccio frammentario sottolinea l’urgente necessità di strutture di sostegno più integrate e a lungo termine che mettano al centro le esigenze specifiche delle donne nei contesti post bellici.

Durante il mio soggiorno di ricerca ho condotto interviste con diversi attori rilevanti a Yerevan; foto: Melanie Thu

Attraverso una politica estera femminista coerente dell’UE, che includa valori federalisti

Le raccomandazioni per l’UE scaturite dallo studio sono strettamente allineate ai valori federalisti. Oltre a un migliore coordinamento delle attività dell’UE (e dei suoi Stati membri) e al progresso delle riforme all’interno dell’Armenia, sono fondamentali la promozione della costruzione della pace e la garanzia della sicurezza femminista. L’approccio femminista alla sicurezza è in contrasto con la sicurezza nazionale degli Stati e pone al centro il benessere dei singoli individui. Ciò vale anche per una concezione federalista della pace basata sullo smantellamento dei rapporti di potere patriarcali sotto forma di stati nazionali. In situazioni di conflitto, occorre prestare particolare attenzione ai gruppi più vulnerabili, come le donne nelle regioni di confine o i rifugiati.

Arrivare in una regione in conflitto in quanto federalista può essere un punto di vista ingenuo, poiché gli aspetti di sicurezza hard e la salvaguardia della sovranità e dell’identità nazionale sono la priorità assoluta (paragonabile alla situazione in Ucraina). Ciononostante, la regione multietnica ha visto tentativi di federalizzazione attraverso la Federazione Transcaucasica del 1918 e la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Transcaucasica (RSFST) del 1922-1936, che tuttavia era stata accompagnata dalla successiva integrazione nell’Unione Sovietica e non può essere considerata un progetto federalista completamente libero e democratico. Nel corso della storia, i tentativi di autogoverno e di strutture federali sono stati soppressi dalle rivendicazioni egemoniche russe sulla regione.

Per quanto riguarda l’UE, i valori federalisti possono manifestarsi in una politica estera federalista strettamente connessa agli approcci FEP. Una politica estera federalista promuoverebbe una pace positiva che vada oltre la semplice assenza di guerra, ma garantisca la costruzione di una pace sostenibile e la sicurezza. Ciò può tuttavia essere messo in pratica solo se vengono apportate le necessarie modifiche ai trattati dell’UE, se viene istituita una vera democrazia europea con una politica estera comune e se vengono superate le divisioni all’interno dell’Europa. Nessun paese in Europa ha finora attuato con successo una FEP coerente. I valori femministi e federalisti nell’azione esterna possono prosperare solo se le politiche estere nazionali vengono sostituite da un’Europa sovrana in grado di smantellare le relazioni di potere globali e di mettere al centro il benessere delle persone.

La storia del conflitto tra Armenia e Azerbaigian ha dimostrato che l’assenza di atti di guerra non ha portato a una vita sicura e prospera per la popolazione. In questo caso, una visione federalista intersezionale capace di sottolineare l’unità dell’umanità nella pace può persino ampliare la comprensione dei gruppi colpiti. Inoltre, l’inclusione obbligatoria delle donne nei negoziati di pace che vedono l’UE come mediatrice renderebbe l’Europa una vera attrice per la pace nel mondo, sulla base dei valori federalisti della rappresentanza politica democratica di tutti i gruppi della società.

In definitiva, promuovere il federalismo significa promuovere la pace nel mondo, dare risonanza alla voce delle comunità sul campo e costruire una società federalista democratica governata da istituzioni comuni. Includere il pensiero femminista e intersezionale è fondamentale per smantellare determinati livelli di relazioni di potere prevalenti. I concetti relativi alla FEP e all’agenda “Donne, Pace e sicurezza” sono strumenti importanti per promuovere la creazione di una società federalista e dovrebbero essere affrontati in modo molto più integrato.

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