Sulla difesa europea

, di Edoardo Pecene

Sulla difesa europea

Le recenti tensioni internazionali, e la spirale di anarchia che regola i rapporti fra Stati porta oggi alla necessità di una ripresa della discussione sul tema della difesa comune europea.

La finestra storica, in cui, a parer mio, siamo già dentro, si è aperta con la prima occupazione da parte della Federazione Russa della Crimea e del Donbass. Questa ci ha gettato in una situazione simile a quella che si profilava nei primi anni ‘50, quando si tentò seriamente di mettere in piedi una Comunità Europea di Difesa.

Nonostante l’importante differenza temporale che li differenzia, credo sia innegabile la compresenza di alcuni analogismi, in particolare tre comuni agli europei:

  1. La presenza di un leader dall’altra parte della cortina di cui non ci si può fidare (ieri Stalin, oggi Putin);
  2. Una guerra che ha fatto comprendere la pericolosità dell’altra parte e la paura che il conflitto si allarghi endemicamente al continente (la Guerra di Corea come la Guerra in Ucraina);
  3. L’insicurezza rispetto all’impegno americano nella difesa del continente europeo e il nodo centrale del burden-sharing interno alla NATO.

La contestualizzazione storica e il riconoscimento di questo momento come un’apertura fondamentale su cui fare leva è forse la parte più semplice. Scendendo poi nell’applicazione materiale delle scelte politiche, queste generano, una volta prese, in altre domande aperte e in una sequenza di opzioni estremamente articolata.

Provando a mettere ordine alle idee, ho cercato di raccogliere qualche tema chiave che deve necessariamente essere affrontato per permettere lo sviluppo di un sistema continentale di difesa.

Dobbiamo, in primis, chiarire che la costituzione di una difesa comune europea sarà, nel tecnico/dal punto di vista tecnico, un processo lungo e complicato. A differenza di Stati come la Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America, in cui l’industria bellica è nata e cresciuta in un sistema già connesso ed è quindi stata costruita con una struttura già improntata nella cooperazione fra aziende e nella competizione regolata dallo Stato centrale in materia di appalti, in Europa solo recentemente si sono avviati processi di cooperazione fra le aziende dei vari Paesi. Tra i diversi paesi europei il primo progetto di cooperazione nel campo della produzione di armamenti è stato lo sviluppo del Panavia Tornado, avvenuto nella seconda metà degli anni ‘70. La collaborazione segue le regole di mercato e non sono inusuali estromissioni vicendevoli dai progetti di ricerca e sviluppo o ritiri unilaterali dallo sviluppo, come nel caso dello sviluppo del caccia multiruolo Eurofighter, da cui la francese Dassault decise di ritirarsi a sviluppo avviato.

Allo stesso tempo è necessaria una riconversione completa in termini di armi e mezzi delle forze armate, omologando in modo completo l’equipaggiamento. Oggi si seguono standard generali della NATO come l’utilizzo del calibro 7x62 per tutti i fucili di dotazione standard nelle forze armate dell’Alleanza Atlantica, ma ogni Stato continua ad adottare sistemi d’arma e di protezione propri, con il risultato che innumerevoli risorse siano buttate nello sviluppo e produzione di sistema d’arma nazionali, rendendo molto dispendioso l’aggiornamento costante e il mantenimento in uno stato di “combat readiness” delle forze armate e portando spesso a risultati non eccellenti per quanto riguarda il numero di produzione e la qualità dei mezzi stessi.

Rimane poi la sfida di armonizzazione delle componenti nazionali all’interno di una sola istituzione. Le forze armate, in Europa, sono state e stanno tornando a essere l’ultimo baluardo di un’identità nazionale in crisi, un ricettacolo di nazionalismi che può fortemente intaccare la cooperazione fra unità diverse, incorrendo nel rischio di generare un effetto “austro-ungarico” interno alle forze di difesa che ne minerebbe la compattezza e le capacità operative. Oltre all’armonizzazione nazionale, vi deve essere anche una congruenza di addestramento e di dottrina di guerra fra i vari Stati. Questo ha già visto registrato e sta continuando a ricevere un forte incentivo dalla cooperazione interna alla NATO, ma dobbiamo necessariamente pensare a come operare autonomamente.

Dobbiamo quindi aver chiaro che sarebbe quanto meno miope usare come bussola per lo sviluppo della difesa comune europea le odierne situazioni di tensione e crisi nel mondo. Bisogna lavorare in proiezione del futuro e delle prossime minacce.

Rimangono due punti da toccare prima di concludere. Innanzitutto, il rapporto con la NATO, e quindi con gli Stati Uniti, deve rimanere centrale nella costruzione di un sistema di difesa comune, con però una riacquisizione da parte europea della propria indipendenza strategica e militare, lavorando per spezzare lo strapotere americano sull’industria bellica europea e preferendo la produzione di sistemi indigeni. Poi c’è da rispondere alla domanda: che struttura dare a queste forze armate?

Qui credo dipenda tutto da quale ruolo si voglia dare al sistema di difesa comunitario. Se l’obiettivo è quello di avere la capacità di proiettare la forza europea al di fuori del continente, avremo necessariamente bisogno di una forza armata simile a quella statunitense, con tutti i costi non solo prettamente economici che ne conseguono. Si tratta di un’opzione non particolarmente convincente, perché la proiezione all’esterno può essere raggiunta con delle riforme nel modo di funzionamento della NATO, senza così rischiare un uso improprio della forza militare da parte europea. L’alternativa è la creazione di una - relativamente - piccola task force altamente specializzata, capace, con il supporto statunitense e in accordo con le Nazioni Unite, di essere schierata anche al di fuori del continente e che, in caso di necessità di difesa continentale, venga coadiuvata da un grosso organico di riservisti/guardie nazionali. Un sistema che il recente conflitto russo-ucraino ci ha dimostrato funzionare con una certa affidabilità.

Anche su questo assetto però vi sono dei nodi da affrontare. Il primo, meno critico, che ricalca la questione dell’armonizzazione degli equipaggiamenti delle varie forze armate è: come si armano i riservisti? Serve a monte quindi un sistema di omologazione di equipaggiamenti e dottrine che segua un processo gerarchico, partendo dalla punta della piramide per poi scendere alle singole unità, e solo in un secondo momento si potrebbe mettere il personale a terra ed operativo. La seconda criticità su questo tema si lega alla lettura delle forze armate come ricettacolo dei nazionalismi europei. Le guardie nazionali di un certo Paese dovranno essere composte dai cittadini di quel Paese oppure risulterà essere più utile mischiare le nazionalità? Per quanto potrebbe sembrare scontato che la guardia nazionale, ad esempio, polacca sia composta esclusivamente da cittadini polacchi, esiste un forte rischio di deriva nazionalista interna che minerebbe l’interno sistema. Una soluzione, oltre al mischiare le varie nazionalità, potrebbe essere di mettere le guardie nazionali alle dipendenze dirette di un Ministero centralizzato e non dei singoli Stati, così da evitare che divengano eserciti privati al soldo dei Governi nazionali.

In conclusione, dobbiamo anche tenere conto delle reazioni esterne al processo di intensificazione di sforzi ed investimenti nel settore della difesa che il compimento delle forze armate europee comporterebbe. Uno fra tutti il serio rischio di alimentare il “paradosso della sicurezza”, processo che spesso causa un’esasperazione dei toni e un serio e pericoloso irrigidimento dei rapporti internazionali. Bisognerà quindi avere, necessariamente, una classe politica valida e capace di disinnescare diplomaticamente ogni eventuale ingerenza esterna e situazioni di tensione date dal riarmo del continente che fu casa di due guerre mondiali.

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