Tra crisi e rinascimento. Lo stato federale per il futuro della liberal-democrazia

, di Andrea Apollonio

Tra crisi e rinascimento. Lo stato federale per il futuro della liberal-democrazia

"Nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governati, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi”.

James Madison

1. Introduzione

Le democrazie nazionali occidentali sono attanagliate da un profondo malessere. Analisti e commentatori hanno provato ad indicarne i sintomi: la fine delle grandi narrazioni, il crollo dei partiti tradizionali, la privatizzazione della vita e l’allontanamento dei cittadini dalla sfera pubblica, il declino della partecipazione diretta. I fattori che, secondo tali ipotesi, potrebbero aver giocato un ruolo determinando l’attuale deriva non si prestano a un’immediata sistematizzazione. Urgono risposte chiare al seguente interrogativo: perché la democrazia è in crisi? O meglio, perché le democrazie occidentali non rappresentano più il riferimento politico globale per lo sviluppo e la crescita? La crisi del modello politico democratico si intreccia con i grandi ostacoli posti dalla nostra epoca. 193 stati sovrani riconosciuti dall’ONU, di cui circa 2/3 regimi dichiarati democratici, sono chiamati ad affrontare le sfide molteplici della globalizzazione, «il grande oceano da cui non si può scappare»: la crisi del debito sovrano, l’interdipendenza economica tra stati priva di governo, l’olocausto ecologico, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’anarchia internazionale e lo stato di guerra, i flussi migratori, lo sviluppo delle tecnologie e del mercato digitale.

A ben vedere, si osserva come queste sfide abbiano comportato tre salti paradigmatici netti, rispetto ai quali i regimi politici si trovano impreparati:

  Un nuovo paradigma politico: l’ampiezza delle sfide e la loro trasversalità mostrano l’inadeguatezza della divisione politica del pianeta in stati nazionali.

  Un nuovo paradigma economico: la crescita del PIL globale non produce benessere diffuso e non elimina le diseguaglianze.

  Un nuovo paradigma bellico: politiche commerciali offensive, accordi internazionali offensivi, attacchi digitali e nuove tecnologie belliche, combinandosi, ridisegnano il concetto di guerra.

In sintesi, una doppia tensione colpisce gli stati: da un lato la grandezza delle sfide globali e dei mutamenti paradigmatici, dall’altro l’inadeguatezza degli strumenti politici a disposizione. Le democrazie nazionali sono messe di fronte ad una grande prova: saranno in grado di reggere l’impeto del cambiamento, ripensando in modo creativo sé stesse?

2. Le ragioni storiche del declino

L’esito dei conflitti mondiali del XX secolo sancisce il primato dei regimi democratici rispetto a quelli totalitari. La vittoria bellica determina la formazione di un nuovo equilibrio globale: prima un modello bipolare e la relativa divisione del mondo in due sfere di influenza; poi la progressiva rottura di questo modello e la graduale espansione della sfera di controllo del polo democratico, culminata nel 1989 con il Crollo del Muro di Berlino, quindi del mondo bipolare.

L’euforia del momento oscura i pericoli latenti. La vittoria della democrazia liberale e la graduale diffusione del regime spingono Francis Fukuyama a parlare di “fine della Storia” e di un mondo guidato dalla democrazia (statunitense). Negli anni successivi, contrariamente agli auspici di questa corrente di pensiero, l’impeto della storia si infrange sull’Occidente.

Come emerge in un saggio pubblicato dall’Economist, il mondo assiste a tre grandi fallimenti del processo di democratizzazione:

  I miseri progressi ottenuti nell’ex Unione Sovietica che, dopo il 1989, tenta la via democratica, sono annullati dall’ascesa di Vladimir Putin nel 1999, uno «zar postmoderno» che «ha distrutto la sostanza della democrazia in Russia, mettendo sotto pressione la stampa e imprigionando i suoi avversari».

  La guerra in Iraq, innescata nel 2003, che rivela la contraddizione insita nel tentativo dell’amministrazione Bush di annientare le dittature del Medio Oriente in nome della causa democratica.

  La Primavera araba del 2011 che tradisce le velleitarie speranze occidentali: l’Egitto, nonostante la caduta del regime dittatoriale, non persegue la via democratica.

Questi grandi fallimenti svelano l’ingenuità della teoria di Fukuyama: ciò che sfugge al filosofo della “fine della Storia” è che il regime democratico, prima di essere un modello politico, è una pratica culturale. In quanto tale, essa è il prodotto di un sostrato geografico, storico e sociale imprescindibile, contenente le premesse del suo stesso sviluppo.

L’idea per la quale i semi della democrazia possono attecchire ovunque senza incontrare resistenze è semplicistica, poiché non tiene conto della varietà dei suoli, cioè delle specificità culturali dei contesti sui quali il regime si cala.

La fine del mondo a guida democratica è sancita in via definitiva da due eventi:

  La crisi del debito sovrano del 2007, che complica ulteriormente lo scenario, mostrando la riluttanza, la lentezza decisionale e la confusione politica delle democrazie liberali europee.

  L’enorme crescita della Cina, che si è rivelata ben più forte e reattiva di fronte alla crisi economica, e il trionfo del suo modello politico autocratico a scapito delle democrazie occidentali.

L’aspetto sorprendente della crisi in fieri è che essa, negli ultimi anni, ha riprodotto i suoi sintomi anche all’interno della stessa Unione europea, guardiana dei principi liberali dello stato di diritto.

Quella che potremmo definire “democrazia malata”, oggi, si manifesta in Europa in due varietà principali:

  La democrazia illiberale, teorizzata da Viktor Orban, Primo Ministro ungherese, diffusa tra le nuove democrazie dell’Est. Essa intacca direttamente i principi liberali di controllo del governo, pur mantenendo le libere elezioni. In tal senso, uno degli esempi più eclatanti riguarda la Polonia. Il 3 aprile 2018 è entrata in vigore la legge polacca sulla Corte suprema, sostenuta da sovranisti ed euroscettici. Secondo un comunicato della Commissione, «per effetto della riforma dell’8 dicembre 2017 i giudici membri del Consiglio nazionale della magistratura sono ormai nominati dal Parlamento polacco, in violazione dei criteri europei d’indipendenza della magistratura. […]». L’attacco allo stato di diritto, nel caso in questione l’attacco al principio della separazione dei poteri, implica un attacco diretto al principio democratico di “governo limitato”.

  L’output democracy, ovvero la democrazia populista, diffusa tra le vecchie democrazie dell’Ovest. Essa pone i governanti in un contesto politico per il quale, al fine di vincere la battaglia elettorale, assumono come priorità i problemi individuali del cittadino, proponendosi di risolverli in un’ottica di becero problem solving. L’esito di questo disimpegno è l’allontanamento della classe politica dalle grandi responsabilità e la rinuncia ad un ideale educativo della politica. Secondo tale ideale, l’uomo politico non sminuisce i problemi dei cittadini ma, attraverso i suoi strumenti culturali, li raccoglie, contestualizzandoli in una prospettiva storica e sociale più ampia, coniugandoli alle grandi sfide del mondo e trovando un significato rispetto alle difficoltà che essi vivono. Solo attraverso questo processo educativo, infatti, il cittadino può accettare di intraprendere la via più lunga, che ritarda la risoluzione del suo problema singolare, ma più giusta, poiché conduce la comunità verso soluzioni collettive eque e responsabili.

3. Le ragioni culturali del declino

Nel precedente paragrafo, ripercorrendo la storia della democrazia a cavallo del XX e del XXI secolo, ne abbiamo osservato l’apparente trionfo al quale segue il subitaneo declino.

Parallelamente all’apice del percorso storico della democrazia, un fenomeno più ampio si sviluppa a partire dal secondo dopoguerra. I conflitti bellici globali, i campi di sterminio, i nazionalismi esasperati, il crollo delle dittature nazionalsocialiste e del comunismo sovietico, la globalizzazione e la graduale apertura del mercato cinese instillano un dubbio atroce nelle menti delle persone. La modernità termina, e con essa l’egemonia storica occidentale. Gradualmente, comincia a manifestarsi un clima di disillusione rispetto agli ideali di “verità”, “oggettività”, “conoscenza scientifica” e “progresso”.

Come ha preconizzato Nietzsche prima dei conflitti bellici globali, il mondo, disilluso, assiste al tramonto dei vecchi dei, avviandosi rassegnato verso una nuova epoca. Il nuovo capitolo storico è ben inquadrato da Jean-François Lyotard ne La Condizione Postmoderna, saggio pubblicato nel 1979. Tale condizione, spiega l’autore, «designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo». Il problema con il quale Lyotard si confronta è quello della legittimità del sapere, sia esso scientifico o narrativo:

Il fatto è che esiste un rapporto di gemellaggio tra il tipo di linguaggio che chiamiamo scienza e l’altro che chiamiamo etica e politica: derivano entrambi da una stessa prospettiva o, se si preferisce, da una stessa scelta, che si chiama Occidente.

Lyotard, nell’introduzione, esordisce affermando che è «postmoderna l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni». Per estensione, postmoderna è la disillusione di fronte all’ideale di verità, sia essa scientifica, etica o politica.

La nuova era conduce la società occidentale in un vicolo cieco. La disperazione per la fede perduta genera negazionismo scientifico, allontanamento dal sacro, talvolta ridicolizzazione dei valori.

Il paradigma postmoderno, qui esposto in un’estrema sintesi, è utile per contestualizzare le ragioni culturali della crisi che colpisce le democrazie liberali verso la fine del XX secolo.

A livello intuitivo, è semplice comprendere come questo slittamento paradigmatico possa aver causato il declino delle democrazie, fondate su rappresentazioni collettive. Ma quale aspetto precipuo del regime liberal-democratico cede sotto la pressione della nuova epoca?

Le riflessioni del politologo Stefano Bartolini possono aiutarci a rispondere al quesito. In un recente saggio pubblicato su Il Federalista, l’autore spiega che, essenzialmente, sono tre gli strumenti attraverso i quali le liberal-democrazie del XIX secolo hanno vissuto una fase di stabilità e sviluppo politico: meccanismi di protezione costituzionale, processi di selezione elitaria della classe politica, e partiti politici, attori di stabilizzazione politica.

A ben vedere, tali strumenti hanno in comune lo stesso fine: bilanciare il principio responsivo della democrazia con il principio della responsabilità. Essi rendono le democrazie occidentali pienamente “liberali”, poiché limitano il governo, controllandone l’operato, ponendo lo stesso governo sotto il controllo della legge (costituzione), garantendo la formazione di politici eccellenti (processi di selezione elitaria), raccogliendo i problemi dei cittadini attraverso organi mediatori che sappiano razionalizzarli, inserendoli in visioni più ampie (partiti politici).

L’era postmoderna, che comporta l’allontanamento della società dalle grandi narrazioni, dal sapere scientifico e dagli ideali etici, genera la crisi di due di questi elementi: i processi di selezione e formazione della classe politica e i partiti politici. Viene a mancare l’istituzione che ha il ruolo di mediare tra governatori e governati, indirizzando l’opinione pubblica, facendosi portatore propositivo di un’ideologia per pensare il futuro.

Questa analisi consente a Bartolini di avanzare un’idea illuminante: sebbene il senso comune, ingenuamente, rintracci nella globalizzazione, nello sviluppo dei mercati e negli organismi sovranazionali la causa della perdita di potere sovrano delle democrazie nazionali e dell’incapacità dei politici nazionali di dare risposte immediate ai cittadini (manifestando una visione responsiva della democrazia), la realtà è più complessa. La malattia delle democrazie occidentali colpisce non tanto il principio responsivo, che anzi, come si è visto, in certi casi si mostra eccessivamente vivace, bensì il principio liberale, cioè l’idea di “governo limitato”, irremovibile di fronte all’adempimento delle grandi responsabilità. Non sono le democrazie ad essere malate, ma i principi liberali che le indirizzano.

Due esempi possono servire a illustrare concretamente la crisi dell’aspetto liberale, che parte dal tramonto dei partiti politici ma che ora si estende anche al rispetto dei vincoli costituzionali.

Il primo esempio riguarda il tema dell’asilo politico. Secondo l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, lo status di “rifugiato” deve essere applicato a chiunque «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».

Lo status, secondo questo regolamento internazionale, va riconosciuto anche a chi nutre il «giustificato timore» di essere perseguitato; è quindi sufficiente una ragione potenziale, una paura legittima. Ciononostante, sebbene l’articolo 10 della Costituzione italiana affermi esplicitamente che «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali», è noto che il recente decreto in materia di immigrazione restringe notevolmente il numero di casi di applicabilità dello status di rifugiato, entrando in contraddizione con le indicazioni più ampie della Convenzione di Ginevra, il cui rispetto è garantito dalla Costituzione italiana.

Il secondo esempio riguarda il tema della cessione di sovranità: l’articolo 11 della Costituzione italiana «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Ciononostante, il tema del recupero della sovranità nazionale e gli attacchi al potere tecnocratico dell’UE, che frustra la volontà del popolo, sono all’ordine del giorno.

I casi che ho riportato esemplificano la tesi che Bartolini espone: la crisi a cui oggi si assiste non è la crisi della democrazia in sé, ma la crisi del bilanciamento tra democrazia responsiva e democrazia responsabile. La componente popolare non è in crisi, anzi è uno dei fattori che acuisce la crisi stessa opponendo la volontà del popolo all’establishment, cioè l’élite, i mercati, le banche, i vincoli internazionali, l’UE.

I limiti istituzionali non sono compresi in quanto meccanismi liberali di controllo dell’azione del governo, tutelanti i cittadini stessi, ma percepiti come ostacoli posti da una fantomatica élite politica. Citando James Madison, «il ricorrere a sistemi del genere per controllare gli abusi del governo può sembrare il risultato di un’analisi pessimistica dell’umana natura. Ma cos’è il governo stesso se non la più poderosa analisi dell’umana natura?».

In questo contesto, generalmente, l’opinione pubblica premia il politico pragmatico, che propone soluzioni chiare a problemi concreti. Le grandi narrazioni sono percepite come insiemi di parole vacue, non come sistemi di pensiero e visioni del mondo. Mentre la risoluzione dei problemi di oggi è premiata, questa visione della politica annulla la dimensione delle grandi responsabilità. Bartolini ne individua tre:

  Responsabilità intergenerazionali: le responsabilità verso l’interesse dei cittadini che non hanno ancora la possibilità di votare. In questo senso, è esemplificativo il tema del sistema pensionistico.

  Responsabilità intertemporali: le responsabilità verso l’interesse delle generazioni future. In questo senso, il tema maggiormente rappresentativo è quello della crisi ecologica e della sostenibilità ambientale del nostro modello di sviluppo.

  Responsabilità intercomunitarie: le responsabilità per gli effetti che le decisioni nazionali esercitano sulle altre comunità nazionali. Il tema della gestione della crisi migratoria riguarda una responsabilità intercomunitaria.

Attualmente, con la crisi dell’elemento liberale, fatica ad emergere una consapevolezza diffusa per queste responsabilità di lungo periodo. I cittadini premiano la responsività e breve termine non perché essi siano più egoisti dei cittadini del passato, ma perché, con la crisi delle grandi narrazioni e del ruolo formativo e mediatore dei partiti, il sistema politico ha vissuto una svalutazione della sua funzione educativa. Il problema non riguarda gli individui, ma la struttura.

All’interno dei contesti nazionali l’elemento responsivo e popolare è imperante.

L’esito dello sbilanciamento dei due principi è lo sviluppo del fenomeno della demagogia, cioè di una politica altamente responsiva ma non responsabile.

A livello europeo si manifesta il problema inverso. L’Unione, garante efficiente del rispetto dei principi dello stato di diritto, quindi espressione pura del principio liberale, accusa un deficit democratico che deriva da un difetto di responsività insito nella sua stessa natura.

Infatti, a partire dagli anni ‘80, l’UE prende la via del completamento del mercato interno e della moneta, rimandando ulteriormente il salto politico decisivo. Ad essa, quindi, vengono delegate funzioni tecniche di carattere prevalentemente regolatorio. Lo stesso Parlamento europeo, l’organo i cui membri sono direttamente eletti dai cittadini, è privo di competenze rispetto ai grandi problemi posti dal mondo di oggi. I suoi poteri legislativi sono prevalentemente tecnici.

Questo paradosso è ben illustrato dall’Economist:

«The European Parliament, an unsuccessful attempt to fix Europe’s democratic deficit, is both ignored and despised. The EU has become a breeding ground for populist parties, such as Geert Wilders’s Party for Freedom in the Netherlands and Marine Le Pen’s National Front in France, which claim to defend ordinary people against an arrogant and incompetent elite».

Da questo deficit deriva la mancanza di capacità responsiva, e quindi l’incapacità dell’Unione di recuperare le redini politiche dello sviluppo del continente, bilanciando il principio responsivo a quello liberale. L’esito è la percezione diffusa dell’Unione come sede di istituzioni tecnocratiche, e non come il bacino politico che, come vedremo più avanti, potrebbe riattivare le stanche democrazie nazionali, fornendo una nuova narrazione, una nuova arena per i partiti e nuovi valori sociali attraverso i quali immaginare il futuro del mondo.

4. Crisi dello stato nazionale e della democrazia

Per rispondere alle esigenze poste dalla riflessione teorica abbiamo semplificato il quadro in cui la crisi della democrazia si cala, evidenziando solo alcuni aspetti. Orbene, giunti a questo punto dell’analisi, è necessario allargare la prospettiva d’indagine, aggiungendo un nuovo elemento: la crisi dello stato nazionale che, come avrò modo di mostrare, si intreccia in modo inestricabile con le riflessioni emerse sino ad ora.

Lo stato burocratico moderno, inteso in senso weberiano, è l’istituzione politica che ha innescato il processo di modernizzazione del mondo, sostenendone lo sviluppo. Esso però, subendo un processo di costruzione mitopoietica della sua storia e di naturalizzazione di alcuni tratti culturali, indossa una nuova veste: quella dello stato nazionale. Lo stato nazionale è percepito come entità immanente, un organismo le cui parti (i cittadini) si conformano ai fini collettivi. La nazione plasma i suoi membri, donando loro etnicità, carattere, lingua, tradizioni, presentando tali elementi come fossero naturali, esclusivi, e non come fatti storicamente determinati. Lo stato nazionale e l’ideologia nazionalista sono i veri propulsori del corso storico del XX secolo. Mario Albertini, filosofo politico pavese, nel volume Lo Stato Nazionale del 1958 si è spinto ad affermare che «le condotte liberale, comunista, fascista e così via si adattarono al potere politico nazionale e prevalsero a seconda che avessero raggiunto fini nazionali».

L’idea di crisi dello stato nazionale evoca la contraddizione che colpisce la nostra epoca:

«Nel nostro tempo, la dimensione dell’effettiva interdipendenza dei rapporti umani, nel campo economico come in molti altri campi, ha superato nettamente la dimensione degli stati nazionali classici. Ma questo processo è stato accompagnato, nell’ordine statale, da un processo inverso. Gli stati nazionali hanno infatti nel contempo aumentato costantemente le loro competenze, e quindi costretto entro il loro quadro ormai soffocante un grande numero di attività umane».

La riflessione di Albertini è illuminante. Viviamo in un mondo caratterizzato proprio dai flussi che Arjun Appadurai aveva individuato più di venti anni fa: il flusso di uomini, di danaro, di tecnologie, di simboli e di idee. Tali flussi comportano l’evanescenza dei confini, l’interdipendenza economica, l’annullamento delle distanze geografiche, l’interculturalità e il meticciato. Una mondializzazione de facto, ma non de jure: come già affermato, mancano le istituzioni globali che controllino formalmente il fenomeno in atto, sfruttandone le potenzialità e riducendo i rischi.

Le tensioni prodotte dal contrasto tra globalizzazione e sistema nazionale, come ricorda il già citato saggio dell’Economist, sono ben tre:

  Pressione dall’alto: esercitata da organismi sovranazionali che richiedono la cessione di sovranità per gestire le sfide globali.

  Pressione dal basso: esercitata dai micronazionalismi che sfruttano il principio di autodeterminazione dei popoli per il riconoscimento politico, frammentando le già esistenti nazioni e mostrando l’artificiosità delle narrazioni culturali nazionali.

  Tensione dall’interno: prodotta dai deficit economici strutturali, cioè debiti contratti dagli stati per rispondere alle esigenze dei cittadini, rimandando il riconoscimento della loro obsolescenza.

Queste tensioni legano la crisi del modello democratico alla crisi dello stato nazionale.

Difatti, come può la liberal-democrazia, che oggi si manifesta in senso compiuto unicamente nella forma dello stato nazionale, esprimere il suo potenziale se costretta in un’arena politica soffocante? La dimensione politica offerta ai cittadini di qualsivoglia stato non è all’altezza della dimensione socioculturale del mondo attuale. Ci troviamo in una sorta di interregno gramsciano, una situazione critica nella quale «il vecchio è morto e il nuovo non può ancora nascere».

L’Unione europea, pur essendo l’espressione più autentica dei principi liberali, è avvertita come un nemico della democrazia responsiva e popolare. Ad essa sono indirizzate le responsabilità di scelte non volute dai cittadini e l’incapacità di agire degli stati nazionali. Ciononostante, come vedremo nel paragrafo conclusivo, il progetto di integrazione rimane il riferimento per una prospettiva diversa del futuro della democrazia, che non sia quello di una fine ignobile.

5. Democrazia e federalismo

Abbiamo ripercorso il cammino della liberal-democrazia. Abbiamo osservato il suo trionfo e la sua caduta. Raccogliendo i contributi di diversi autori, abbiamo rielaborato le ragioni storiche e culturali della crisi di questo modello politico. Infine, abbiamo ampliato il contesto nel quale si inserisce il nostro problema, mostrando le connessioni con la crisi del sistema nazionale.

Tenendo a mente il passato, bisogna ora interrogarsi sul futuro.

Sebbene la crisi del modello democratico sia legata alla crisi dello stato nazionale, l’esistenza della liberal-democrazia non è irrimediabilmente connessa a quella dello stato nazionale.

La democrazia è svuotata di senso poiché lo spazio politico che la ospita è soffocante. D’altronde, come può la politica nazionale interrogarsi rispetto ai grandi quesiti globali, proponendo soluzioni possibili? Come può il modello statuale nazionale, che per sua natura è tendenzialmente chiuso e uniformante, risolvere l’idiosincrasia che emerge quando si confronta con l’interconnessione globale, l’interdipendenza de facto e i nuovi valori emergenti del cosmopolitismo e della mondialità?

Nel 1941, nel mezzo del più atroce conflitto bellico della storia del genere umano, Altiero Spinelli, all’epoca giovane antifascista detenuto sull’Isola di Ventotene, individua una nuova spaccatura che caratterizza la lotta per il progresso. Essa divide coloro che hanno compreso l’obsolescenza del sistema nazionale e che perseguono il cammino dell’integrazione sovranazionale mirando a costruire una nuova arena politica dove dibattere del futuro del mondo, da coloro che invece, sfruttando le ansie dei cittadini spaventati da un mondo che cambia, mirano, più o meno consapevolmente, a difendere i fantomatici confini nazionali, pensando che uno scoglio possa arginare il mare.

Lo scritto che riassume il pensiero di Spinelli circola negli ambienti della resistenza in modo clandestino, ispirando gran parte della classe politica che avrebbe guidato la democrazia pochi anni dopo, per poi passare alla Storia come Il Manifesto di Ventotene.

Di seguito la celebre citazione che riassume la lucida intuizione spinelliana, contenente una verità che oggi, per molti, è un’imprescindibile consapevolezza:

«la linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».

La spaccatura ideologica di Spinelli, che oppone due schieramenti politici antitetici,

«segna anche il confine tra chi vuole rafforzare e sviluppare la democrazia e chi si fa invece affascinare dai modelli autocratici, e tra chi vuole costruire la pace e chi, magari inconsapevolmente, crea le condizioni che rendono possibile la guerra. Il nazionalismo nell’epoca dell’interdipendenza conduce, infatti, in un vicolo cieco, perché non esiste una ricetta nazionale per lo sviluppo: il tentativo di tenere fuori dai propri confini la globalizzazione ha come solo risultato quello di aggravare i problemi di ciascun sistema e di ciascuna società, approfondendone la crisi e producendo anarchia. La globalizzazione è una realtà da cui non si può tornare indietro».

Il federalismo è l’unica teoria politica che immagina una nuova forma statuale, lo stato federale, come modello politico per superare il sistema nazionale, risolvendone le contraddizioni.

Il nucleo centrale di questa teoria risiede nel superamento della visione monolitica del potere sovrano. Secondo tale visione, la sovranità di uno stato è un fatto monolitico, indivisibile. Il federalismo, invece, sostiene che la sovranità, ovvero la somma dei poteri e delle competenze di uno stato, già articolate al suo interno secondo il principio della divisione funzionale dei poteri, possa essere scomposta e riorganizzata secondo il principio della divisione territoriale dei poteri, attraverso una forma di governo a più livelli:

  Il livello federale, che possiede le competenze necessarie per garantire l’unità sovranazionale in senso politico ed economico.

  Il livello nazionale, che esercita potere decisionale in merito a tutte le altre politiche che non sono espressamente definite come esclusive del livello federale (tra cui quelle educative, quelle culturali, molte delle politiche sociali, ecc.), ma lo fa demandando ai livelli di governo subnazionali molte competenze, in base al principio di sussidiarietà.

  I diversi livelli subnazionali (regionale, provinciale e locale), con competenze più ristrette legate a problematiche di dimensione ridotta ma direttamente connesse alla vita degli individui residenti.

Come emerge da questo schema, la caratteristica fondamentale dello stato federale è che esso concilia il principio dell’unità e della comunità politica con il principio di indipendenza dei singoli stati. Attraverso la sintesi operata dal modello federale, si preserva il vantaggio offerto dalla dimensione politica locale, ovvero la partecipazione diretta ai processi decisionali, con i vantaggi offerti dalla dimensione politica sovranazionale, ovvero la crescita, la sicurezza e la stabilità che solo un attore politico di dimensioni continentali può assicurare.

Il passaggio alla nuova forma statuale produce due risultati sorprendenti. Da un lato, essa supera la crisi del sistema nazionale poiché, sottraendo agli stati il potere di fare la guerra, trasforma i loro rapporti di forza in rapporti regolati dalla legge, assicurando la pace e garantendo sviluppo. Dall’altro, risolve la crisi del regime democratico poiché, unificando politicamente diverse comunità nazionali e sdoppiando la rappresentanza democratica, rende possibile la partecipazione politica su un’ampia estensione territoriale e l’espressione di scelte politiche democratiche realmente efficaci.

La complessità di questo modello riflette la complessità del mondo nel quale viviamo, nonché la complessità identitaria che caratterizza la nostra epoca. Chi oggi potrebbe affermare di sentirsi italiano, senza sentirsi contemporaneamente cittadino europeo e cittadino del mondo? Se si costituissero gli Stati Uniti d’Europa e se nel quadro di questo più avanzato sistema istituzionale la politica recuperasse la sua ambizione pedagogica, educando un popolo intero ad una nuova prospettiva per interpretare il futuro del mondo, si realizzerebbero le condizioni per la rinascita del modello democratico, attualmente soffocato dalla crisi del sistema nazionale.

Finché le democrazie europee non spalancheranno le porte e le finestre della torre d’avorio nella quale si sono arroccate, dando aria alle loro stanze anguste e gettando luce sulla loro fragilità, esse rimanderanno il confronto con il mondo, perdendo l’occasione di cambiare e crescere.

L’articolo completo, con note e la bibliografia, è stato pubblicato sulla rivista InCircolo (giugno 2019).

Fonte immagine: Wikipedia.

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom