La riunione dell’eurogruppo di venerdì scorso ha preso decisioni importanti. Ma inadeguate.
Di fronte a qualche immediata perplessità, i rappresentanti istituzionali si sono affrettati a chiarire che sono state prese decisioni storiche, ma che i dettagli devono ancora essere definiti… e lo saranno nei prossimi mesi. Il problema si annida però proprio nei dettagli che devono ancora essere definiti. Soprattutto in tema di risorse (quali? quante? Solo contributi nazionali o anche – e magari soprattutto – risorse proprie?) e di impieghi (come spendere? chi decide? con quali maggioranze?).
Centeno, il Presidente dell’Eurogruppo, ha giustamente sottolineato come i problemi di tenuta e di crescita economica nell’area dell’euro siano essenzialmente di natura politica. E non si tratta di un tentativo di scaricare la responsabilità sui governi nazionali… ma di una criticità oggettiva dell’intera governance economica europea. Che però non viene risolta, ma semplicemente rimandata a data da destinarsi, dato che, come Centeno stesso ammette, i paesi “non sono ancora pronti a prendere una decisione sulle prossime fasi”.
Interessante l’ipotesi del cofinanziamento di investimenti nazionali, in una logica simile a quella del Piano Juncker: ossia la possibilità di attivare investimenti a valere sul fondo europeo con co-finanziamenti nazionali che rispettino le strategie europee, allo stesso tempo impegnandosi a realizzare pacchetti di riforme strutturali che accrescano l’efficienza e la competitività di mercati e settori. Positiva inoltre la decisione di utilizzare l’ESM come backstop per il meccanismo unico di risoluzione dell’unione bancaria e la ‘riscoperta’ del fondo per l’assicurazione sui depositi, a mio avviso cruciale (se prontamente ed opportunamente oggetto di una massiccia campagna di comunicazione) per raccogliere consenso dai cittadini europei.
La maggiore difficoltà rimane ad oggi il problema che definirò ‘politico-culturale’. Il tentativo in atto è un compromesso fra due visioni radicalmente opposte: quella ‘francese’, volta ad utilizzare il bilancio europeo in funzione anticiclica, di stabilizzazione, orientandolo alla crescita su settori strategici realizzabili in maniera più efficace a livello sovranazionale; e quella ‘tedesca’ (anche se la Germania in questo momento si tiene defilata, per non compromettere i delicati equilibri di apparente unitarietà d’intenti fra Merkel e Macron, anche in vista delle prossime nomine europee), portata avanti in questa occasione dall’Olanda, che teme proprio l’eccessivo uso del bilancio aggiuntivo per finalità di stabilizzazione, senza che vi siano impegni condizionali alle riforme strutturali necessarie a garantirne la sostenibilità nel tempo. Da qui la denominazione del bilancio ad-hoc come un fondo per le riforme strutturali atte “a favorire convergenza e competitività”. Ma il rischio è, al solito, che il compromesso sia talmente schizofrenico (creare un bilancio sovranazionale che di fatto serve solo a gestire a livello nazionale le riforme strutturali) da non essere cantierabile. E con il rischio aggiuntivo di essere giudicato ed etichettato come l’ennesimo vincolo illegittimo da parte di qualche governo, che costringe magari a riforme impopolari.
In passato, tradizionalmente, il compromesso trovava un esito concreto e cantierabile grazie all’intervento dell’Italia, dotata di negoziatori con credibilità (personale e nazionale) sufficienti per spingere verso una soluzione non schizofrenica di questo confronto intellettuale e politico.
Un contributo oggi assente. La cui assenza penalizza non solo l’Italia, che per prima avrebbe bisogno di riformare la governance economica dell’eurozona, ma l’intera UE. E che fa sorgere più di un dubbio sulla effettiva direzione che prenderà questa iniziativa nel prossimo futuro.
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