Barak Obama annuncia i «negoziati per una partnership sul commercio e l’investimento transatlantico (Transatlantic Trade and Investment Partnership) con l’Unione europea, perché un commercio libero ed equo attraverso l’Atlantico sosterrà milioni di posti di lavoro in Usa». Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e il commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht, precisano che l’accordo mira non solo alle tariffe doganali, ma che toccherà anche l’accesso agli appalti pubblici e agli investimenti. Un “nuovo patto atlantico”, come si è espressa la scorsa settimana l’ attuale sottosegretario agli Affari Esteri Marta Dassù in un articolo pubblicato su La Stampa. Difficile assistere a questa fanfara senza rimanere feriti, in quanto patrioti europei, dalla superficialità delle tesi proposte e da quanto sia sottotono e dimessa la strategia progettuale invocata per il nostro continente.
La retorica del libero scambio non è che uno slogan che nasconde la realtà dei rapporti di forza esistenti fra Europa ed America senza proporsi di modificarli a vantaggio di entrambi i contraenti (cosa che il termine patto porterebbe ad immaginare) ma solo per consolidare una situazione di disparità esistente e semmai per acuirla. Del resto lo dice apertamente anche la Dassù nell’articolo citato: “va detto subito: non è un’idea nuova”. Però continua: “Nuova è la convinzione con cui la sostiene un’ amministrazione americana che vede ancora nell’Europa, non nella Cina, il partner economico decisivo. I dati sono lì a dimostrarlo. Europa e Stati Uniti generano insieme un flusso commerciale di due miliardi di euro al giorno, un terzo del totale mondiale. Un accordo di libero scambio - progetto sostenuto in questi anni soprattutto da Germania, Gran Bretagna e Italia - avrebbe benefici economici tangibili. Ma l’idea non è mai riuscita ad andare oltre le affermazioni di principio, data la complessità delle tematiche affrontate e la capacità di interdizione delle varie lobby che traggono profitto da mercati protetti. Oggi - fallito il negoziato di Doha sul commercio globale, passate le elezioni americane (fasi in cui qualunque apertura commerciale è tabù) e constatato, da parte degli europei, che la domanda è «esterna» o non è - sono riunite finalmente le condizioni necessarie, economiche e politiche, per avviare il negoziato”.
Proprio dal citato “Doha Round” bisogna partire per capire quello che sta succedendo.
L’america vorrebbe senz’altro rivolgersi al Pacifico e incrementare la sua penetrazione in Asia, ma proprio il fallimento totale di quei negoziati indica che le potenze asiatiche non ci stanno ad accettare le condizioni poste da una superpotenza che ormai non è più tale, ma una superpotenza “low-cost”.
Ecco perché il vicepresidente Joe Biden, dalla Conferenza di Monaco, chiedeva pochi giorni or sono agli europei di costruire un’area di libero scambio, prontamente incalzato oggi da Obama. In attesa di trovare, si spera, un modo di aggredire maggiormente l’oriente, gli USA cercano di tamponare il declino inasprendo la propria penetrazione ad occidente, favoriti da un processo di colonizzazione strisciante in atto ormai da oltre settanta anni e che proprio adesso potrebbe dare i suoi frutti migliori: l’inglese ormai sulla via per diventare la prima lingua dell’Unione Europea e, appunto, “un accordo non settoriale ma ampio, che includa i flussi commerciali, i servizi, gli investimenti, gli appalti pubblici, le disposizioni in materia di Pmi, l’accesso alle materie prime e all’energia. Un comprehensive free trade agreement (Fta)”.
Non si può non evidenziare ancora una volta come Regno Unito e USA lavorino congiuntamente per spezzare la costruzione federale e politica dell’Europa: sono passate poche settimane dal discorso di Cameron che ha invocato una forma puramente “mercantilistica” di convivenza fra le nazioni europee (linea oltretutto ribadita con successo al vertice europeo) e ancor meno dal misero bilancio europeo approvato che già gli Stati Uniti auspicano di inserirsi esattamente in questa linea. Nella prospettiva di costruire davvero gli Stati Uniti di Europa, il primum logico deve essere di costruirsi la libertà, cioè le condizioni per trattare alla pari con alleati che siano tali e non colonizzatori. Un’efficace europa federale, unita politicamente e linguisticamente, deve prima di tutto mirare a questo. Una volta capito ciò, tutte le argomentazioni addotte dai retori del libero scambio cadono implacabilmente.
Si dice che ci conviene agganciarsi all’America per sfruttare la svalutazione del dollaro che si sta perseguendo e non soffrire dell’inevitabile forza dell’euro. Ma non sarebbe molto meglio fare in modo di garantirci la possibilità di una politica monetaria più libera, oltretutto con il risultato di condizionare fortemente anche gli altri Stati a compiere scelte che rispettino un equilibrio globale?
Si dice che ci conviene agganciarsi alla (ipotetica) ripresa americana per poter disporre di energia a costo più basso prodotta con indubbio vantaggio dagli US attraverso le nuove tecnologie LTO (Liht Tight Oil) e Shale Gas. Ma non potremmo noi stessi implementare nuove tecnologie, magari anche più moderne e avanguardistiche di quelle americane?
Intanto disponiamo di un mercato interno di mezzo miliardo di eurocittadini, il più florido del mondo, per quanto ancora dovremo svenderlo all’America? Senza contare che l’Asia è addirittura ingorda di prodotti europei, costosi ma di altissimo livello, come dimostra il successo enorme che alcuni paesi già possono vantare su quei mercati, come dimostra il caso della Germania in Cina.
Sul Welt am Sonntag hanno scritto Olaf Gersemann e Martin Greive che gli Stati Uniti non sono al momento partner affidabili per un simile progetto. Esso richiederebbe delle strutture di controllo ad oggi non sufficientemente sviluppate per evitare di finire preda delle lobby americane. Inoltre il cuore pulsante dell’economia del futuro sarà in sud America e in Asia, proprio le macro-zone che si sentiranno ferite da un accordo bilaterale con gli USA, privando l’eurozona di possibilità concrete di espansione futura.
Potremmo aggiungere noi: che senso ha non proporre piuttosto alla Russia di entrare nell’Unione Europea? Si tratterebbe, questo sì, di un partner attendibile per il futuro e unito da un profondo legame storico-culturale con il resto del continente (oltretutto a maggioranza religiosa cristiana). Perché, pur potendo vincere, le nostre classi politiche continuano a voler fare gli zerbini e ad adoperarsi per farci guadagnare le briciole quando abbiamo le carte in regola per mangiarci la torta?
1. su 4 marzo 2013 a 13:13, di Giordano Sepi In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
Un nuovo piano Marshall sarebbe l’apanacea di questa crisi, forse. Non possiamo rifiutarla per motivi che a me sfuggono. La Russia nell’Unione Europea potrebbe entrare dopo che il processo democratico sia diventato definitivo e visto il trattamento dei giornalisti e degli oppositori in quel paese, non mi sembra che il processo democratico sia ancora compiuto.
2. su 4 marzo 2013 a 15:36, di Benny In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
ottimo, ma non sono un esperantista, che male c’è nel adottare come lingua franca la lingua di impero angloamericano in decadimento?
il latino è sopravvissuto per molto tempo all’impero romano.
L’inglese sopravviverà allo stesso modo.
in un mondo plurilingue chi avrà difficoltà sono proprio i paesi di lingua inglese.
3. su 4 marzo 2013 a 15:41, di Benny In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
fra l’altro l’EuRussia confina col parter cinese.
l’america in crisi viene a cercarci, non lo concepiscono proprio che il loro modello è in crisi, presto la demografia e la globalizzazione li fara svegliare. volevano americanizzare il mondo ma verranno europeizzati e cinesizzati loro. il bello è che succederà senza che se ne rendano conto. Sta già accadendo. «occupy» è solo il preludio delle rivendicazioni, di una coscienza sociale che l’america non sembra mai aver avuto. Vittima di una propaganda capitalista non meno feroce di quella stalinista.
4. su 4 marzo 2013 a 19:07, di Franco Martinelli In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
Non importa essere esperantisti per capire il bisogno di una lingua franca per l’Europa federale. Anzi, io credo che sarebbe tanto meglio se non ci fossero più esperantisti ma solo persone pragmatiche alla ricerca di una lingua internazionale. La risposta a quanto detto dal signor Benny è semplice: l’inglese non è una lingua franca, non è una lingua (nè una cultura) nullius, rimando ai saggi socio-economici di Robert Phillipson per avere maggiori informazioni. E’ una lingua complessa, che i più dotati apprendono in modo comunque imperfetto solo dopo molti anni di studio. L’Unione Europea spende ogni anno 360 miliardi di euro per insegnarlo ed esso non sarà mai imparato in modo abbastanza soddisfacente da poter gareggiare con un madre lingua (e si consideri che un madre lingua è preferito, logicamente, in sempre più settori). Inoltre la scelta di tale lingua favorisci la penetrazione delle aziende anglomaericane, visto che i grandi trust hanno accumulato un vantaggio che difficilmente potrà essere colmato. In generale comunque, tutti gli studi mostrano che l’inglese non è in grado di funzionare come una lingua franca. Semplicemente non lo è. Quindi bisogna essere chiari: dovremmo dire che accettiamo la lingua degli angloamericani come lingua imposta. Non come lingua franca, dato che non lo può essere. I dubbi sollevati nell’articolo, poi, sono perfettamente sensati: non si vede perchè l«aiuto» americano debba essere una panacea, visto che come detto l’Europa come tale non può fronteggiare adeguatamente le lobby americane e rischia di ritrovarsi in preda ad una penetrazione americana pesantissima le cui conseguenze sarebbero disastrose per la possibilità stessa di costruire liberamente l’Europa. Potrebbe ugualmente essere una panacea? Non lo si può sostenere con certezza, sig. Sepi, l’articolo mostra serissime ragione per cui è un’opzione molto rischiosa ed è strano che lei non le comprenda, non sono difficili da capire. Quanto al processo di democratizzazione russo...è certo un problema. Ma gli Stati Uniti non sono diventati gli Stati Uniti facendosi troppe tare mentali, tanto è vero che ci sono Stati dove non si può parlare di Darwin, dove esiste la pena di morte etc. Tanto peggio per l’America che si scopre non civile, ma rimane il fatto che offrendo alla Russia di entrare si possono porre condizioni e così influenzare società e politica, non solo partecipare della ricchezza. I ricchi russi possono comprarsi mezza Italia, infatti si sono già comprati Forte dei Marmi e molto altro...se saranno con noi possiamo indirizzare la loro cupidigia e partecipare dei loro vantaggi, limitando e architettando le cose, altrimenti no. Se fanno parte di noi, possiamo imporre regole che la mafia russa non potrà evitare così facilmente, se non lo facciamo essa prospererà. Averla con noi comporta dei rischi, ma inferiori rispetto ad avere un gigante fuori controllo alle porte di casa. Riguardo al suo ultimo intervento, Benny...non sono così ottimista che l’America sarà cinesizzata o europeizzata, le sue deduzioni sono molto affrettate.
5. su 4 marzo 2013 a 20:00, di Alberto Chilosi In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
L’articolo dimostra una profonda ignoranza dei fondamenti dell’ Economia Internazionale. Gli scambi internazionali non sono un gioco a somma zero, gli stessi vantaggi che gli Stati Uniti possono ottenere dall’ apertura del mercato europei, gli europei possono ottenerli dalla reciproca apertura del mercato americano. Alberto Chilosi
6. su 6 marzo 2013 a 11:15, di Jacopo Barbati In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
Salve a tutti. Franco Marinelli ha ben spiegato perché l’inglese non può e non deve essere la lingua dell’UE. D’altro canto, l’adozione di una lingua franca è fondamentale nel processo di creazione del concetto di cittadinanza europea - e quindi, della federazione europea: finché ci saranno difficoltà comunicative, la percezione dello «straniero» non sarà mai eliminata. Se i cittadini europei non si sentiranno tali, sarà facile per politici demagoghi attaccare la già imperfetta UE, additandola come causa di tutti i mali. L’esperanto già esiste ed è la lingua artificiale più diffusa al mondo, al momento; non vedo perché disprezzarne od ostacolarne l’uso in Europa.
Saluti, Jacopo Barbati
7. su 13 marzo 2013 a 01:40, di Luca Tribertico In risposta a: Un nuovo piano Marshall per distruggere gli Stati Uniti d’Europa
@Alberto Chilosi. L’intervento dimostra una profonda ignoranza dei fondamenti della storia del libero scambio internazionale. Gli scambi internazionali non sono un gioco a somma zero, su questo siamo d’accordo. Ma in questo senso: alla fine c’è sempre un soggetto che stravince e uno che straperde, se i fondamentali dell’economia sono diseguali. Valga questo semplice paragone: se io liberalizzo gli incontri di boxe permettendo gare tra pesi molti diversi (es: peso massimo contro peso piuma) è sì vero che il peso piuma avrà un’occasione migliore di prima di scambiare botte col peso massimo. Però alla fine dell’incontro sarà da recuperare col cucchiaino.
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