La decisione di concedere al governo britannico altri sette mesi di tempo per trovare una soluzione al rebus della Brexit, presa ieri dal Consiglio europeo, ha provocato nell’opinione pubblica un certo scompiglio. In realtà non c’è ragione di stupirsi, anzi la cosa era facilmente prevedibile.
L’uscita dell’UK dall’UE è stata presa nel 2016 da una maggioranza risicata di cittadini britannici del tutto ignari delle sue implicazioni, sull’onda emotiva provocata da una campagna basata su un sistematico travisamento dei fatti, nell’assenza di un partito nettamente pro-europeo e con l’astensione di una fetta, altrimenti decisiva, di elettorato giovane. I leavers hanno quindi trascinato il paese in un salto nel buio di cui la maggioranza si è pentita il giorno successivo al voto, come i sondaggi non hanno tardato a suggerire. Nessuno avrebbe potuto dimostrare che la Brexit sarebbe convenuta ai britannici, come del resto agli altri europei. Al contrario, era evidente il danno economico e politico che ne sarebbe derivato per tutti, e per i britannici in particolare.
Versato il latte, si trattava quindi, per il Regno Unito come per l’Unione europea, di trovare il modo di rimetterlo nel bricco. Non sorprende che ci siano voluti tre anni di contorsioni politico-giuridiche per arrivarci. Ma adesso ci siamo. La decisione presa ieri dal Consiglio europeo significa solo una cosa: che il trauma è in via di assorbimento. La partecipazione ormai obbligata del Regno Unito alle elezioni europee di maggio è la definitiva pietra tombale sulla Brexit: ogni giorno che passa ci allontana infatti dal voto del 2016 e rende più plausibile l’opzione di un nuovo referendum britannico sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, con la differenza che questa volta si voterà avendo piena coscienza di che cosa è in gioco. Ne escono sconfitti l’élite dei brexiters inglesi, qualche eminenza grigia come Rupert Murdoch, il monopolista nemico dell’UE e più precisamente dell’antitrust europeo, l’amministrazione Trump e la Russia di Putin, questi ultimi ormai privati del piede di porco con cui credevano di scardinare l’integrazione europea per imperare su un’Europa divisa e perciò indebolita.
Resta da chiedersi se l’Unione europea si gioverà del rientro di un paese tradizionalmente euroscettico come il Regno Unito, che vi resterà per ovvi motivi di interesse economico e geopolitico, ma non certo abbandonando le proprie riserve nei confronti di ogni potenziale avanzamento nel processo di integrazione, e anzi, prevedibilmente, per esercitarvi la solita funzione di freno e ostacolo, grazie al veto che i trattati europei concedono ai governi dei paesi membri.
Noto che il grosso dell’opinione pubblica europeista in Italia è dell’idea che l’affossamento della Brexit sarebbe una disgrazia per l’Unione europea. Mi sembra una lettura scontata e sostanzialmente ingenua, basata sull’idea che il Regno Unito fosse il principale ostacolo all’integrazione economica e politica e che, senza di esso, gli altri governi e le istituzioni comunitarie avrebbero potuto finalmente progredire. Gli ultimi tre anni di virtuale assenza dei britannici dal consesso europeo hanno dimostrato che non è così. Caduto l’alibi britannico, è emersa senza più veli la volontà di immobilismo da parte degli altri governi, con l’unica eccezione di quello francese (non a caso il presidente Macron è stato il solo a dissentire ieri dalla proposta di concedere più tempo al governo di Theresa May).
Rimosso il veto britannico rimangono gli altri, ad esempio quelli di Polonia e Ungheria, ma anche Olanda e Danimarca sul fronte dell’integrazione fiscale e probabilmente della nuova Italietta giallo-verde; ma rimane anche lo straordinario peso inerziale dell’Unione stessa, che come ogni burocrazia è essenzialmente conservatrice, e che, se da un lato fa il suo mestiere lanciando di quando in quando proposte di ever closer union, come recitano da sempre i trattati, dall’altro rimane sostanzialmente refrattaria a ogni prospettiva di genuina integrazione, che vuol dire – se qualcosa deve voler dire in concreto – unione federale nei due settori decisivi della politica fiscale e di quella estera e di difesa.
No: credere che senza il Regno Unito fra i 28 membri la strada dell’integrazione politica sarebbe spianata significa illudersi. Al punto in cui siamo è molto più vero il contrario: sarà – se dovrà essere – una paralisi conclamata della macchina comunitaria a forzare finalmente l’unica soluzione ragionevole per sfuggire allo sfascio, che è e rimane, appunto, quella dell’unione federale fra un gruppo di paesi volenterosi. L’Europa si è sempre fatta per forza, mai per amore; e sarà così anche sull’ultimo tratto di strada, quello più ripido della definitiva condivisione di sovranità. Ben venga dunque, in un certo senso, l’euroscettico Regno Unito a rendere ineludibile il bivio che ci attende in ogni caso: quando saremo costretti a decidere, tutti noi europei, tra l’inconcludente e poco democratica Unione intergovernativa e l’Europa democratica e funzionale che solo un governo federale può darci. Questa sì, una scelta non più rinviabile.
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